Svolgimento del processo
Con ricorso depositato presso il Tribunale di Roma, in funzione di giudice del lavoro, M. S. impugnò il licenziamento intimatogli il 22/7/05 dalla Procter & Gamble Italia spa deducendone l’illegittimità per mancanza di giusta causa o giustificato motivo in ragione degli asseriti motivi ritorsivi o illeciti che l’avevano determinato, per cui chiese la reintegra nel posto di lavoro ed il pagamento delle retribuzioni fino alla reintegra. Il giudice adito rigettò la domanda e a seguito di impugnazione della sentenza da parte del lavoratore la Corte capitolina, con sentenza del 19/1 – 26/3/10, ha respinto il gravame, precisando che il licenziamento poteva ritenersi giustificato in ragione del contenuto diffamatorio delle frasi trasmesse dal dipendente per posta elettronica all’indirizzo dei suoi superiori, missiva, questa, rispetto alla quale non era stata eccepita in nessuno dei due gradi di giudizio l’incapacità di intendere e di volere del ricorrente al momento della sua trasmissione; inoltre, secondo i giudici d’appello non poteva trovare ingresso la tesi dell’esistenza di una provocazione atta a giustificare la gravità del comportamento, in quanto la lamentata persecuzione, che secondo il ricorrente sarebbe stata posta in essere nei suoi confronti dalla datrice di lavoro, era stata esclusa con sentenza passata in giudicato e, d’altra parte, il lavoratore non aveva nemmeno impugnato le precedenti sanzioni disciplinari adottate a suo carico.
Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso il S., il quale affida l’impugnazione a sei motivi di censura.
Resiste con controricorso la Procter & Gamble Italia S.p.A. che deposita, altresì, memoria.
Motivi della decisione
1. Col primo motivo il ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 c.c., dell’art. 324 c.p.c. e dell’art. 124 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile, nonché l’omessa, contraddittoria ed insufficiente motivazione sul punto della nullità della sentenza.
Ritiene il S. che la copia della sentenza della Corte d’appello di Roma – sezione lavoro n. 1125 del 9/2 – 4/5/2007, allegata dalla controparte alla memoria di secondo grado al fine di dimostrare il passaggio in giudicato della decisione che aveva escluso la sussistenza del comportamento vessatorio datoriale al quale esso ricorrente aveva reagito con la missiva le cui espressioni offensive avevano comportato il suo licenziamento, era priva dell’attestazione prevista dall’art. 124 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile. Ne conseguiva che la Corte di merito non avrebbe potuto tener conto della eccezione di giudicato per affermare la preclusione di cui agli artt. 2909 c.c. e 324 c.p.c. su una circostanza decisiva ai fini della risoluzione della controversia e che avrebbe errato nel non consentire la rinnovazione dell’istruttoria per la dimostrazione dell’esistenza di una condizione lavorativa di grave disagio ed emarginazione a suo danno. Osserva la Corte che il motivo è infondato per la semplice ragione che il ricorrente non mette in dubbio, neanche nel presente giudizio di legittimità, il fatto che sulla insussistenza del lamentato “mobbing”, comportamento vessatorio datoriale avverso il quale egli sostiene di aver reagito con l’invio della “e-mail” posta a base del licenziamento, era intervenuto il giudicato rappresentato dalla sentenza della Corte d’appello di Roma -sezione lavoro n. 1125 del 9/2 – 4/5/2007. Ne consegue che sul punto non può che
registrarsi una carenza di interesse del ricorrente all’impugnativa, a prescindere dalla eccepita inosservanza della norma di cui all’art. 124 disp. att. c.p.c. sulle formalità per ia certificazione del passaggio in giudicato della sentenza.
2. Col secondo motivo il ricorrente censura la sentenza per violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 ce, nonché per la contraddittoria o insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia, evidenziando, altresì, la nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c.
Spiega il S. che la Corte di merito ha erroneamente interpretato il suddetto giudicato in quanto se, per un verso, lo stesso escludeva la sussistenza di un “mobbing” in suo danno, per altro canto aveva accertato l’esistenza di una “difettosa organizzazione aziendale” che connotava la condotta colposa della parte datoriale, condotta rivelatasi penalizzante nei suoi confronti, escludendone solo il carattere doloso. Aggiunge, pertanto, il ricorrente che se i giudici d’appello avessero ben interpretato tale passaggio motivazionale della sentenza coperta da giudicato avrebbero potuto cogliere l’essenza di quei comportamenti datoriali che avevano determinato lo svuotamento delle sue mansioni, con conseguente demansionamento, e la sua emarginazione nel contesto lavorativo in cui operava, la qual cosa aveva provocato la sua reazione, manifestatasi attraverso l’invio della missiva per posta elettronica il cui contenuto era stato indicato come motivo del suo licenziamento.
Il motivo è infondato.
Invero, non è dato rinvenire alcun errore nell’interpretazione del summenzionato giudicato operata dalla Corte di merito.
Infatti, la Corte territoriale ha spiegato che nella sentenza coperta da giudicato si era affermato che non emergeva, dalla complessiva istruttoria, un intento persecutorio della società e che il demansionamento appariva ascrivibile ad una condotta che, seppur censurabile, era dovuta più ad una difettosa organizzazione aziendale che ad un intento persecutorio nei confronti del lavoratore.
3. Oggetto del terzo motivo di doglianza è la lamentata violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 ce, nonché il vizio di motivazione in reiazione all’art. 360 c.p.c, comma 1, nn. 3 e 5, per avere la Corte territoriale ritenuto che le espressioni contenute nella “e-mail” del ricorrente inviata il 30/6/2003, indirizzate ai propri diretti superiori (amministratore delegato, direttore del personale e superiore gerarchico), avessero contenuto diffamatorio ed offensivo, integrando con ciò la giusta causa di licenziamento, oltre che l’omessa o contraddittoria motivazione sulle certificazioni mediche per la valutazione sulla capacità del ricorrente.
Assume il S. che ai fini della valutazione della ricorrenza della giusta causa di licenziamento la Corte d’appello avrebbe dovuto considerare anche l’aspetto soggettivo del suo comportamento con riguardo al fatto che nel caso in esame anche se la sua capacità di intendere e volere al momento dell’invio della missiva incriminata non era totalmente esclusa era pur certo che la stessa risultava notevolmente scemata, come comprovato dalle certificazioni in atti.
4. Col quarto motivo il ricorrente deduce la violazione o falsa applicazione dell’art. 2119 c.c. in relazione agli artt. 594, 595, 599 c.p., nonché l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia. Il medesimo evidenzia, inoltre, l’errata attribuzione della diffamazione, la falsa o, comunque, errata applicazione della scriminante della provocazione, nonché l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione sulla proporzionalità della sanzione espulsiva.
Il ricorrente sostiene che hanno errato i giudici d’appello a considerare diffamatorio il messaggio da lui inviato per posta elettronica direttamente ai suoi superiori, a nulla potendo valere il fatto che accidentalmente la segretaria di uno dei destinatari, ai quali egli aveva voluto comunicare in via esclusiva il suo disappunto, ne avesse conosciuto il contenuto; il medesimo aggiunge che ai fini della valutazione della proporzionalità della sanzione al fatto contestato gli stessi giudici non avevano tenuto conto del suo stato di turbamento giustificato dallo stato di emarginazione in cui era stato posto e dal grave demansionamento subito.
Il terzo ed il quarto motivo possono essere trattati congiuntamente in quanto affrontano sostanzialmente la stessa questione della valutazione della legittimità del licenziamento alla luce dei fatti che lo determinarono (contenuto diffamatorio delle espressioni adoperate dal dipendente attraverso l’invio della “e-mail”), dell’aspetto soggettivo del comportamento del lavoratore al momento del fatto incriminato (capacità del medesimo di rendersi conto della portata offensiva del contenuto della missiva inoltrata per via posta elettronica ai suoi superiori), della mancata considerazione della scriminante della provocazione e della proporzionalità del provvedimento espulsivo rispetto all’entità dell’addebito contestato.
Ebbene, entrambi i motivi sono infondati in quanto le questioni affrontate, vale a dire la valutazione della ricorrenza della giusta causa del licenziamento, del contenuto diffamatorio delle espressioni adoperate dal dipendente, della sua capacità di rendersi conto della loro portata offensiva, dei precedenti comportamenti indicativi della
insubordinazione e della proporzionalità della sanzione adottata sono stati vagliati dal giudice d’appello con apprezzamento condivisibile ed esattamente condotto su riscontri probatori.
In particolare, per quel che riguarda, invece, la lamentata non corretta applicazione della scriminante della provocazione non può che richiamarsi quanto esposto in occasione della disamina dei primo motivo, vale a dire l’accertata esistenza, da parte del giudice d’appello, del giudicato che escludeva l’intento persecutorio della parte datoriale che secondo l’assunto del lavoratore aveva ingenerato la sua reazione, giudicato la cui sussistenza non è stata nemmeno posta in dubbio dall’odierno ricorrente.
5. Col quinto motivo si deducono i seguenti vizi della sentenza impugnata:- Violazione o falsa applicazione dell’art. 2119 c.c. per insussistenza del requisito dell’immediatezza della comunicazione rispetto al momento della mancanza addotta a sua giustificazione; violazione del principio della buona fede di cui all’art. 7 dello Statuto dei lavoratori e della proporzionalità della sanzione ex art. 2106 c.c.; omessa o insufficiente motivazione sul punto decisivo della controversia; violazione e falsa applicazione dell’art. 49 e dell’art. 52 lett. I) sulla contestabilità della recidiva in relazione all’art. 99 del cp. e all’art. 7 L. 300/70; nullità della sentenza per mancanza di adeguata motivazione sul punto. Nel denunziare le suddette violazioni il ricorrente fa osservare che la contestazione disciplinare relativa al licenziamento oggetto di causa, irrogato il 22/7/2005, recava la data dell’8/7/2005, mentre il provvedimento invocato dalla datrice di lavoro per l’applicazione della recidiva era del 26/6/2003, per cui essendo decorsi oltre due anni tra la contestazione disciplinare del giugno del 2003 e la contestazione del luglio del 2005 il giudicante non avrebbe dovuto tener conto, ai sensi dell’art. 49 del ceni, della recidiva. Osserva la Corte che al riguardo è fondata l’eccezione di inammissibilità del motivo sollevata dalla contro-ricorrente in ordine alla novità della questione della lamentata insussistenza del requisito della immediatezza della comunicazione rispetto al momento della mancanza addotta a sua giustificazione, trattandosi di questione che non aveva formato oggetto di discussione nei precedenti gradi del giudizio.
Quanto alle doglianze inerenti la mancanza di proporzionalità della sanzione ex art. 2106 c.c. e la non contestabilità della recidiva si rileva quanto segue:- In merito alla prima questione la Corte d’appello, dopo aver evidenziato il contenuto offensivo del messaggio e la sua diffusione tra più persone che non erano solo i diretti destinatari, ha spiegato, con motivazione congrua sottratta al sindacato di legittimità, che erano condivisibili le argomentazioni del primo giudice sul carattere proporzionato della sanzione espulsiva, in considerazione della gravità delle espressioni usate che travalicavano certamente il diritto di cronaca e che erano teoricamente riconducibili a fattispecie penali, quali l’ingiuria e la diffamazione. In maniera altrettanto adeguata la Corte d’appello ha chiarito, in ordine alla seconda questione, che il precedente comportamento disciplinare poteva essere considerato ai fini della valutazione della personalità del lavoratore indipendentemente dalla recidiva nel biennio e che, in ogni caso, era sufficiente che quest’ultima venisse contestata entro il periodo previsto, a nulla rilevando che la sanzione venisse applicata successivamente, in quanto ciò che realmente rilevava era che il richiamo del precedente negativo avvenisse al momento della contestazione dell’addebito di cui trattasi. 6. Con l’ultimo motivo vengono segnalate la violazione o falsa applicazione dell’art. 7 L. 300/70 in relazione all’art. 360 c.p.c, comma 1, nn. 3 e 5, e l’omessa preventiva contestazione dell’addebito del grave nocumento morale e materiale dell’impresa. Deduce, al riguardo, il ricorrente che l’omessa preventiva contestazione dello specifico addebito, contenuto nel provvedimento di licenziamento, di aver arrecato un grave nocumento morale e materiale all’impresa, aveva comportato una menomazione del suo diritto di difesa, per cui l’adozione del provvedimento espulsivo era avvenuta in spregio a quanto previsto dal secondo comma dell’art. 7 della legge n. 300/70. Anche quest’ultimo motivo è infondato, atteso che la Corte d’appello ha spiegato che il riferimento solo nella lettera di licenziamento al “grave nocumento morale e materiale all’impresa” non riguardava un comportamento che necessitava di previa contestazione in quanto costituiva l’espressione di una valutazione di comportamenti fatti già oggetto di contestazione disciplinare.
Il ricorso va, pertanto, rigettato.
Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza del ricorrente e vanno poste a suo carico nella misura liquidata come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente alle spese del presente giudizio nella misura di € 3000,00 per onorario, oltre € 40,00 per esborsi, nonché IVA, CPA e spese generali ai sensi di legge.