Cessione di ramo d’azienda – Autonomia funzionale – Cessione dipendenti – Trasferimento mezzi di lavoro
Svolgimento del processo
La Corte d’appello di Roma con la sentenza n. 7693 del 2013, confermava la sentenza del Tribunale della stessa sede, che aveva dichiarato l’invalidità nei confronti di D.R. ed altri litisconsorti del contratto di cessione di ramo d’azienda intervenuto tra V.O. N.V. e C.C. s.p.a., già C.C. s.r.l., e, per l’effetto, aveva disposto il ripristino dei rapporti di lavoro alle dipendenze di V.O..
Con il suddetto contratto di cessione di ramo d’azienda, con effetto dal 9 novembre 2007 V. aveva ceduto a C.C. s.r.l. “un ramo d’azienda che svolge i servizi di back office consumer (dealer support, supporto tecnico unificato, reclami,variazioni e subentri), back office corporate (sales support, variazioni, subentri, attivazioni, standard/network/fisso, customer relationship management amministrazione vendite) e gestione credito (phone collection, verifica del credito, gestione non telefonico, gestione inbound) con proprio personale presso le sedi di Milano, Ivrea, Padova, Roma e Napoli”. Con il suddetto contratto venivano ceduti i dipendenti pertinenti al ramo d’azienda, i contratti ad esso inerenti, ad eccezione dei contratti di locazione relativi alle sedi di Milano, Roma, Ivrea. Venivano anche ceduti tutti i beni mobili non registrati delle sedi di Padova e Napoli, ivi inclusi gli arredi utilizzati negli uffici ed i PC comprensivi dei sistemi operativi degli apparati, rimanendo però escluse le infrastrutture tecnologiche, hub e router. Contestualmente le parti davano atto di aver stipulato un contratto per la fornitura da C.C. a V. dei servizi di back office consumer, back office corporate e gestione credito, ossia i servizi consistenti nella gestione dei servizi di assistenza amministrativa a beneficio dei clienti privati o delle società e dei titolari di partita Iva, mentre nella gestione credito erano state trasferite alcune attività come phone collection e verifica del credito.
La Corte territoriale premetteva che, pur dopo la modifica dell’art. 2112 c.c. V comma, operata dall’art. 32 del D.lgs n. 276 del 2003 operante ratione temporis, il trasferimento del ramo d’azienda richiedesse la conservazione dell’identità funzionale del ramo preesistente alla cessione, e che esso dovesse essere già in tale momento in grado di esercitare autonomamente un’attività economica organizzata. Con riferimento al caso di specie, riteneva che il mancato trasferimento dei programmi e dei sistemi informatici determinasse la mancanza dell’autonomia e dell’autosufficienza dell’articolazione aziendale trasferita nella gestione di supporto tecnico, variazioni ecc., dei contratti e di gestire gli aspetti economici del servizio telefonico. La Corte aggiungeva poi che non era decisivo che fosse stato trasferito tutto il personale addetto ai servizi ceduti, in quanto in difetto di cessione degli strumenti informatici prima utilizzati veniva meno il requisito della preesistenza del ramo ceduto (essendo ceduto qualcosa di diverso da quello che era prima ossia articolazione di azienda costituita da dipendenti beni immobili e beni immateriali per l’esercizio dell’attività). Inoltre, non si era dedotto e dimostrato che il gruppo di lavoratori trasferiti fosse dotato di un particolare know how, e cioè di un comune bagaglio di conoscenze tale che solo con esso fosse possibile fornire lo stesso od altro servizio, mentre il fatto che l’organizzazione in capo a C. della funzionalità del servizio fosse stata garantita atteneva ad un momento successivo a quello della realizzazione della cessione di ramo d’azienda, al quale occorre avere riguardo.
Per la cassazione della sentenza V.O. B.V., già V.O. N.V., ha proposto ricorso, affidato a due motivi, cui hanno resistito con controricorso i lavoratori, che hanno proposto altresì ricorso incidentale affidato ad un motivo, cui ha resistito V.O. B.V. con controricorso, nonché C. s.p.a.(già C.C. s.p.a.), che ha proposto anch’essa ricorso incidentale affidato a due motivi, cui hanno resistito con controricorso i lavoratori. Tutte le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c.
Nelle memorie ex art. 378 c.p.c. si riferisce che n. 35 lavoratori hanno conciliato la controversia con V., nell’ambito del contenzioso ex L. n. 92 del 2012, originato dal licenziamento collettivo dei lavoratori che erano risultati vincitori nel presente giudizio e riammessi in servizio a seguito delle sentenze del Tribunale.
Motivi della decisione
Il ricorso principale di V.O. B.V. e quelli incidentali sono stati riuniti in quanto proposti avverso la medesima sentenza.
1. All’udienza pubblica è stata prodotta una visura rilasciata dalla della CCIA di Milano di C. s.r.l.. Il documento non fornisce sufficiente contezza di vicende evolutive verificatesi riguardo a C. s.p.a., che pertanto deve ritenersi ancora essere una delle parti del presente giudizio. Deve peraltro in proposito rilevarsi (con Cass. 14 dicembre 2006, n. 26826) che l’eventuale trasformazione di una società da un tipo ad un altro previsto dalla legge non si tradurrebbe comunque nell’estinzione di un soggetto e correlativa creazione di uno nuovo in luogo di quello precedente, ma configurerebbe una vicenda meramente evolutiva e modificativa del medesimo soggetto; essa comporta, in particolare, soltanto una variazione di assetto e di struttura organizzativa, la quale non incide sui rapporti sostanziali e processuali facenti capo alla originaria organizzazione societaria.
2. Sono stati poi prodotti, unitamente alle memorie ex art. 378 c.p.c., i verbali di conciliazione (giudiziale per tutti con eccezione di S.S., che ha conciliato in sede sindacale) stipulati con V.O. B.V. con i seguenti lavoratori: Z.F., S.P., T.R., S.A., S.V., S.S., S.R., S.B., R.G., R.T., P.A., M.C., M.M., M.F., D.A., S.A., L.E., G.F., F.P.A., D.L.C., D.L.T., D.D., D.S., D.R., C.M., B.M., A.C., A.R.S., C.L.. Risultano altresì prodotti peraltro altri verbali relativi ad altri lavoratori che non risultano parti del presente giudizio.
Il contenuto degli accordi transattivi e la volontà così manifestata dalle parti si appalesano idonei a dimostrare l’intervenuta cessazione della materia del contendere ed il conseguente sopravvenuto difetto di interesse a proseguire il processo nei confronti di V..
Il contenuto dell’accordo transattivo, che ha regolato anche il regime delle spese processuali, giustifica la compensazione tra le parti stipulanti delle spese processuali del giudizio.
3. Sempre in via preliminare, si rileva che la notifica del ricorso incidentale è stata richiesta da C. s.p.a. in data 26.5.2014, quando già il termine per l’impugnazione ex art. 327 I c.p.c. era decorso, considerato che la sentenza gravata era stata depositata in data 30.10.2013. La sostanziale sovrapponibilità dei motivi del ricorso principale e di quello incidentale fa però ritenere che l’impugnazione di C. non possa configurarsi come incidentale in senso stretto, in quanto meramente adesiva all’impugnazione principale e non presidiata da un autonomo interesse ad impugnare da essa originato. Come rilevato da Cass. n. 6444 del 17/03/2009 in relazione ad una fattispecie di cessione di azienda come quella che ci occupa, il litisconsorzio tra cedente e cessionario e l’inscindibilità delle cause, comportano infatti che l’impugnazione proposta dal primo impedisca anche nei confronti del secondo il passaggio in giudicato della sentenza sui punti comuni, cessando perciò di aver rilievo il fatto che questi non abbia proposto la medesima impugnazione (cfr. anche Cass. 25 giugno 2003, n. 10125, ed altre conformi), sicché nessun ulteriore risultato utile deriva dal ricorso incidentale. Questo Collegio ritiene allora di aderire all’indirizzo interpretativo di questa Corte che trae origine dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 7339 del 1996 e che, successivamente posto in discussione dalle stesse Sezioni Unite con la sentenza n. 24627 del 24.11.2007, pare oggi prevalente (v. Cass. n. 109 del 7/1/2016, n. 21990 del 28/10/2015, n. 20040 del 07/10/2015; n. 1120 del 21/01/2014, n. 1610 del 25/1/2008, n. 6284 del 10/3/2008, ma, contra, Cass. n. 12714 del 25/5/2010, n. 9308 del 22/4/2011, n. 6444 del 17/3/2009), secondo il quale tale ricorso resta soggetto ai termini ordinari di impugnazione, non potendosi applicare l’art. 334, comma 1, c.p.c.. Il ricorso incidentale tardivo di C. dev’essere pertanto dichiarato inammissibile.
4. Occorre quindi esaminare il ricorso incidentale proposto dai lavoratori, che attiene alla regolare instaurazione del contraddittorio.
E difatti si fa ivi rilevare che la sentenza di primo grado non è stata appellata rispetto ai signori B.G., C.D., D.F.R., D.F.A., M.P., M.M., P.A., P.V., V.C., sicché nei confronti degli stessi si dovrebbe dichiarare che l’accertamento giudiziale compiuto dalla sentenza n 10338/2012 del Tribunale del Lavoro di Roma deve essere ritenuto ormai definitivo. Inoltre, nella sentenza gravata verrebbero indicati erroneamente i nominativi dei procuratori della società V.O. NV, non sarebbero menzionati né la società C.C. Spa né i suoi procuratori avvocati C.M. e L.A., pur costituiti in giudizio e proponenti appello incidentale, vengono indicati come non costituiti in giudizio, per parte appellata, i signori B.I. (al contrario espressamente indicata al n. 9 della memoria difensiva) e C.E. (indicato al n. 21 della stessa memoria); la sig.ra C.E., indicata come tale al n. 13 della memoria difensiva, è stata erroneamente indicata nella sentenza come C.E.; la sig.ra R.T., n. 69 della memoria difensiva, è stata indicata erroneamente in sentenza come R.D.; il sig N.F.M., numero 59 della memoria difensiva, nella sentenza viene indicato come N.; la signora F.A.M., n. 39 della memoria difensiva, nella sentenza viene indicata come F.A.N.; la signora P.A. n. 63 della memoria difensiva nella sentenza viene indicata soltanto come P..
Il motivo di ricorso incidentale ha quindi ad oggetto il terzo rilievo, quello concernente la mancata costituzione in giudizio dei sigg.ri B. e C.. Per tutte le altre indicate erronee indicazioni, in via condizionata al ricorso principale, la difesa chiede che questa Corte voglia provvedere rettificando tali errori, nel caso non ritenga che tale procedura possa essere automaticamente espletata a seguito della verifica della correttezza delle indicazioni fornite. Aggiunge che controparte ha operato ulteriori errori laddove ha rinnovato, con la proposizione del ricorso, domande nei confronti dei signori P. (senza nome), A.P., V.S., D.P.A., B.L., che, viceversa, avevano rinunziato nel corso del giudizio di primo grado alla controversia.
4.1. Preso atto della correzione effettuata dal difensore di V. all’udienza di discussione degli errori materiali contenuti nel ricorso introduttivo di questo giudizio con riferimento ai nominativi di N., C. e R., si deve rilevare che il ricorso incidentale è inammissibile.
L’omessa o inesatta indicazione del nome di una delle parti nell’intestazione della sentenza va infatti considerata un mero errore materiale, emendabile con la procedura di cui agli artt. 287 e 288 cod. proc. civ., quando dal contesto della sentenza risulti con sufficiente chiarezza l’esatta identità di tutte le parti; comporta, viceversa, la nullità della sentenza qualora da essa si deduca che non si è regolarmente costituito il contraddittorio, ai sensi dell’art. 101 cod. proc. civ., e quando sussiste una situazione di incertezza, non eliminabile a mezzo della lettura dell’intera sentenza, in ordine ai soggetti cui la decisione si riferisce (Cass. n. 7343 del 26/03/2010). Nel caso, gli errori addebitati alla sentenza gravata vengono descritti come errori materiali, considerato che i signori B. e C. sono comunque indicati come parti del giudizio di appello.
Inoltre, questa Corte non può procedere alla correzione di errori materiali nei quali sia incorsa la Corte di merito, dovendo provvedervi il giudice a quo. E difatti è già stato chiarito che nel caso in cui sia stato proposto ricorso per cassazione avverso una sentenza viziata da errore materiale, l’istanza di correzione non può essere proposta dinanzi alla corte di legittimità, ma unicamente al giudice di merito, a norma dell’art. 287 cod.proc.civ.; tale principio risulta avvalorato all’esito della dichiarazione di parziale illegittimità costituzionale del detto articolo, operata dalla sentenza della Corte Cost. n. 335 del 2004, limitatamente alle parole “contro le quali non sia stato proposto appello”, sicché il solo giudice competente alla correzione è quello che ha emesso la sentenza affetta dall’errore (Cass. n. 9968 del 12/05/2005, n. 21492 del 07/11/2005, n. 28712 del 30/12/2013).
Ne deriva che, essendo i nominativi degli intimati coincidenti con quelli indicati nella sentenza gravata (salve le apportate correzioni) e risultando parte nel giudizio di secondo grado C.C. s.p.a., ritualmente rappresentata e assistita, nessun rilievo può essere accolto in questa sede in proposito.
5. I motivi del ricorso principale possono così essere riassunti:
5.1. Come primo motivo, viene dedotta la nullità della sentenza per violazione degli articoli 24 secondo comma e 111 secondo comma della Costituzione, 101, 112, 115 c.p.c. e 2697 c.c. nonché violazione e falsa applicazione delle predette norme. La ricorrente richiama l’articolo 123 comma 5 del D.lgs. n. 196 del 2003, Codice in materia di protezione dei dati personali, che impone ai gestori del servizio pubblico di telefonia mobile la piena e diretta responsabilità dei programmi che consentono l’accesso ai data base contenenti i dati dei propri clienti, e ribadisce che in virtù di tale normativa V. non avrebbe potuto cedere la titolarità della sua banca dati, né può consentire a terzi di sviluppare autonomamente un programma di accesso alla stessa. Sostiene che la distinzione tra data base e software non è mai stata allegata in giudizio da nessuna delle parti, né può ritenersi fatto notorio rientrante tra le nozioni di comune esperienza; inoltre tale distinzione non troverebbe alcun fondamento nella realtà, in quanto non esiste la possibilità di gestire le pratiche di attivazione di SIM telefoniche ovvero di gestione del credito senza entrare nel data base dei clienti della società di telefonia.
5.2. Come secondo motivo, V.O. B.V lamenta violazione e falsa applicazione dell’articolo 2112 c.c. Ribadisce l’irrilevanza della mancata cessione dei programmi operativi e la natura decisiva dell’elemento dell’organizzazione, colpevolmente travisato dalla Corte d’appello, nonché la non necessità del requisito della preesistenza del ramo ceduto, alla luce della novella del 2003, e comunque il suo travisamento operato dalla Corte d’appello di Roma. Argomenta che il servizio ceduto non avrebbe interdipendenza funzionale con V., ma solo forme di legittimo raccordo. Evidenzia ancora che il legislatore al VI comma dell’articolo 2112 c.c., ha espressamente disciplinato la fattispecie dell’appalto di servizi eseguito dall’appaltatore attraverso il ramo d’azienda acquisito, così ammettendo come pienamente legittima l’interconnessione operativa funzionale che il ramo ceduto continua a mantenere con l’organizzazione del cedente.
6 I due motivi di ricorso, che possono essere esaminati congiuntamente in quanto connessi, sono infondati.
Al fine di individuare quando ricorra la fattispecie della cessione di ramo d’azienda, secondo la Direttiva 12 marzo 2001, 2001/23/CE, che ha sostituito la direttiva 14 febbraio 1977, 77/187/CEE, come modificata dalla direttiva 29 giugno 1998, 98/50/CE, “è considerato come trasferimento ai sensi della presente direttiva quello di una entità economica che conserva la propria identità, intesa come un insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere un’attività economica, sia essa essenziale o accessoria” (art. 1, n. 1, direttiva 2001/23). La Corte di Giustizia, cui compete il monopolio interpretativo del diritto comunitario, ha ripetutamente individuato tale nozione come complesso organizzato di persone e di elementi che consenta l’esercizio di un’attività economica finalizzata al perseguimento di un determinato obbiettivo (cfr. Corte di Giustizia, 11 marzo 1997, C-13/95, Suzen, punto 13; Corte di Giustizia, 20 novembre 2003, C-340/2001, Abler, punto 30; Corte di Giustizia, 15 dicembre 2005, C-232/04 e C-233/04, Guney-Gorres e Demir, punto 32) e sia sufficientemente strutturata ed autonoma (cfr. Corte di Giustizia, 10 dicembre 1998, Hernandez Vidal, C-127/96, C-229/96, C-74/97, punti 26 e 27; Corte di Giustizia, 13 settembre 2007, Jouini, C-458/05, punto 31; Corte di Giustizia, 6 settembre 2011, C-108/10, Scattolon, punti 51 e 60). Tale interpretazione è stata confermata nella recente sentenza 6 marzo 2014, C-458/12, Amatori ed a., in cui la Corte UE – in particolare ai punti 30 e 32 – ha richiamato la propria precedente giurisprudenza, ed ha anzi precisato (pt. 34) che l’impiego del termine «conservi» nell’art. 6, par. 1, commi 1 e 4 della direttiva «implica che l’autonomia dell’entità ceduta deve, in ogni caso, preesistere al trasferimento”, per concludere al pt. 35 che «..qualora risultasse … che l’entità trasferita di cui trattasi non disponeva, anteriormente al trasferimento, di un’autonomia funzionale sufficiente – circostanza questa che spetta al giudice del rinvio verificare – tale trasferimento non ricadrebbe sotto la direttiva 2001/23».
In tale sentenza la Corte UE ha anche evidenziato, in specie al punto 51, che l’obiettivo della Direttiva è di garantire, per quanto possibile, il mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di cambiamento dell’imprenditore, consentendo loro di rimanere al servizio del nuovo imprenditore alle stesse condizioni pattuite con il cedente: ha così ritenuto coerente con tale finalità l’allargamento da parte della legge nazionale dell’ambito della protezione del lavoratore ceduto ad ipotesi ulteriori rispetto a quelle di cessione di ramo d’azienda così come sopra individuata, e ciò prescindendo dall’indagine in ordine alla genuinità della cessione ad altri fini, eventualmente concorrenti, di tutela.
6.1. La nozione di cessione d’azienda così delineata è stata confermata dalla successiva sentenza 9 settembre 2015, nella causa C-160/14, Joao Filipe Ferreira da Silva e Brito e altri c. Estado portuguès, in cui la Corte di Giustizia ha ribadito (punto 25) che il criterio decisivo, per stabilire se sussista un trasferimento nel senso indicato dalla richiamata Direttiva, consiste nel fatto che l’entità in questione conservi la sua identità, il che si desume in particolare dal proseguimento effettivo della gestione o dalla sua ripresa. Ha aggiunto che per determinare se questa condizione sia soddisfatta, si deve prendere in considerazione “il complesso delle circostanze di fatto che caratterizzano l’operazione di cui trattasi, fra le quali rientrano in particolare il tipo d’impresa o di stabilimento in questione, la cessione o meno degli elementi materiali, quali gli edifici ed i beni mobili, il valore degli elementi materiali al momento del trasferimento, la riassunzione o meno della maggior parte del personale da parte del nuovo imprenditore, il trasferimento o meno della clientela, nonché il grado di analogia delle attività esercitate prima e dopo la cessione e la durata di un’eventuale sospensione di tali attività”, precisando che questi elementi sono soltanto aspetti parziali di una valutazione complessiva cui si deve procedere e non possono, perciò, essere valutati isolatamente.
6.2. La normativa nazionale non è stata rimodellata con il fine di allargare l’ambito della fattispecie astratta della cessione di ramo d’azienda rispetto alla nozione adottata in sede comunitaria, considerato che il legislatore al contrario ha manifestato l’esplicita volontà di adeguarvisi. La legge n. 30 del 2003 all’art. 1, comma 2 lettera p) ha infatti delegato il governo a rivedere il D.lgs. 2 febbraio 2001, n. 18, (che aveva già modificato l’art. 2112 c.c.), al fine dichiarato di realizzare un “completo adeguamento della disciplina vigente alla normativa comunitaria”, costituita dalla richiamata direttiva 2001/23/CE del Consiglio del 12 marzo 2001, già recepita dalla L. 1 marzo 2002, n. 39, richiedendo poi in particolare al punto 2) la previsione del requisito dell’ “autonomia funzionale del ramo di azienda nel momento del suo trasferimento”.
All’esito dell’esercizio della delega, l’art. 2112 c.c., nel testo modificato dal D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 32, applicabile ratione temporis alla presente controversia, ha mantenuto immutata la definizione di “trasferimento di parte dell’azienda” nella parte in cui essa è “intesa come articolazione funzionalmente autonoma di un’attività economica organizzata”, mentre le modifiche normative hanno riguardato la soppressione dell’inciso “preesistente come tale al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità” e l’aggiunta testuale “identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento”, che richiede che al momento della cessione venga individuato l’ambito dell’autonomia funzionale del complesso ceduto. Ha altresì introdotto al VI comma un regime di solidarietà tra appaltante ed appaltatore per il caso in cui l’alienante stipuli con l’acquirente un contratto di appalto la cui esecuzione avvenga utilizzando il ramo d’azienda oggetto di cessione.
6.3. L’intervento normativo del 2003 ha quindi ribadito e sottolineato che costituisce elemento costitutivo della fattispecie della cessione d’azienda I’ autonomia funzionale del ramo d’azienda ceduto, ovvero la capacità di questo, già al momento dello scorporo dal complesso cedente, di provvedere ad uno scopo produttivo con i propri mezzi, funzionali ed organizzativi (così come chiarito in più occasioni da questa Corte, v. Cass. n. 5425 del 2015, n. 25229 del 2015, n. 8759 del 2014, n. 2766 del 2013, n. 22613 del 2013, n. 21711 del 2012). Il fatto che la nuova disposizione abbia rimesso al cedente e al cessionario di identificare l’articolazione che ne costituisce l’oggetto non significa che sia consentito di rimettere ai contraenti la qualificazione della porzione dell’azienda ceduta come ramo, così facendo dipendere dall’autonomia privata l’applicazione della speciale disciplina in questione, ma che all’esito della possibile frammentazione di un processo produttivo prima unitario, debbano essere definiti i contenuti e l’insieme dei mezzi oggetto del negozio traslativo, che realizzino nel loro insieme un complesso dotato di autonomia organizzativa e funzionale apprezzabile da un punto di vista oggettivo. Il requisito della preesistenza del ramo e dell’autonomia funzionale nella previsione si integrano quindi reciprocamente, nel senso che il ramo ceduto deve avere la capacità di svolgere autonomamente dal cedente e senza integrazioni di rilievo da parte del cessionario il servizio o la funzione cui esso risultava finalizzato già nell’ambito dell’impresa cedente anteriormente alla cessione. La disposizione legittima quindi anche la cessione di un ramo “dematerializzato” o “leggero” dell’impresa, ovvero nel quale il fattore personale sia preponderante rispetto ai beni, quando però il gruppo di lavoratori trasferiti sia dotato di un particolare know how, e cioè di un comune bagaglio di conoscenze, esperienze e capacità tecniche, tale che proprio in virtù di esso sia possibile fornire lo stesso servizio (Cass. n. 21917/2013 e 15690/2009).
6.4. Tale requisito, letto conformemente alla disciplina dell’Unione, consente di limitare le ipotesi di deroga al principio generale stabilito dall’art. 1406 c.c., secondo il quale la cessione del contratto richiede il consenso della parte ceduta, scongiurando operazioni di trasferimento che si traducano in una mera espulsione di personale, in quanto il ramo ceduto dev’essere dotato di effettive potenzialità commerciali che prescindano dalla struttura cedente dal quale viene estrapolato (in tal senso in particolare v. Cass. n. 5425 del 2015, n. 25229 del 2015, citate) ed essere in grado di offrire sul mercato ad una platea indistinta di potenziali clienti quello specifico servizio per il quale è organizzato.
6.5. L’analisi non deve quindi basarsi sull’organizzazione assunta dal cessionario successivamente alla cessione, eventualmente grazie alle integrazioni determinate da coevi o successivi contratti di appalto, ma all’organizzazione consentita già dalla frazione del preesistente complesso produttivo costituita dal ramo ceduto. Il sistema normativo è infatti ben chiaro nel distinguere I’ appalto (anche di servizi) dalla cessione di ramo d’azienda. L’attuale VI comma dell’art. 2112 c.c., valorizzato dalla Corte territoriale ed anche dalla parte ricorrente, ha introdotto un regime di solidarietà tra appaltante ed appaltatore (quello di cui all’art. 29 comma 2 del D.lgs. n. 276 del 2003, in virtù della modifica apportata dall’art. 9, comma 1, D.Lgs. 6 ottobre 2004, n. 251) per il caso in cui il cedente stipuli con il cessionario un contratto di appalto la cui esecuzione avvenga utilizzando il ramo d’azienda oggetto di cessione, così manifestando come la consistenza del ramo d’azienda utilizzato e il contratto di appalto del servizio ceduto restino su due piani distinti. Il comma 3 del citato art. 29, poi, chiarisce che l’acquisizione del personale già impiegato nell’appalto a seguito di subentro di un nuovo appaltatore, in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro, o di clausola del contratto d’appalto, non costituisce trasferimento d’azienda o di parte d’azienda, in tal modo nettamente chiarendo che, anche quando il cedente stipuli con il cessionario un contratto d’appalto per la fornitura del servizio ceduto, si può configurare una cessione di ramo d’azienda (solo) quando al trasferimento del personale si accompagni quella del complesso degli altri elementi che lo rendeva autonomamente idoneo allo svolgimento del servizio.
6.6. Dal punto di vista processuale, poi, occorre rilevare che incombe su chi intende avvalersi degli effetti previsti dall’art. 2112 c.c. che costituiscono eccezione al principio del necessario consenso del contraente ceduto stabilito dall’art. 1406 c.c., fornire la prova dell’esistenza di tutti i requisiti che ne condizionano l’operatività: grava, cioè, sulla società cedente l’onere di allegare e provare l’insieme dei fatti concretanti un trasferimento di ramo d’azienda (Cass. n. 4500 del 8.3.2016 e Cass. n. 206 del 2004).
6.7. Il principio di diritto che regola la fattispecie è dunque il seguente: “Costituisce elemento costitutivo della cessione di ramo d’azienda prevista dall’art. 2112 c.c., anche nel testo modificato dal D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 32, I’ autonomia funzionale del ramo ceduto, ovvero la capacità di questo, già al momento dello scorporo dal complesso cedente, di provvedere ad uno scopo produttivo con i propri mezzi, funzionali ed organizzativi e quindi di svolgere – autonomamente dal cedente e senza integrazioni di rilievo da parte del cessionario – il servizio o la funzione cui risultava finalizzato nell’ambito dell’impresa cedente al momento della cessione, indipendentemente dal coevo contratto di fornitura di servizi che venga contestualmente stipulato tra le parti. Incombe su chi intende avvalersi degli effetti previsti dall’art. 2112 c.c. che costituiscono eccezione al principio del necessario consenso del contraente ceduto stabilito dall’art. 1406 c.c., fornire la prova dell’esistenza di tutti i requisiti che ne condizionano l’operatività”.
7. La Corte territoriale, facendo applicazione di tali principi, ha escluso che nella fattispecie sottoposta al suo vaglio fosse stata fornita la prova idonea a ritenere che nella specie fosse stata trasferita un’ attività organizzata “funzionalmente autonoma”, con una valutazione di merito che, in quanto espressa con motivazione sufficiente e non contraddittoria, sfugge al sindacato di legittimità (cfr. Cass. n. 5117 del 2012, Cass. n. 20422 del 2012, Cass. n. 2151 del 2013, Cass. n. 20729 del 2013, Cass. n. 1821 del 2013, Cass. n. 24262 del 2013).
Nel valorizzare, come riportato nello storico di lite, la mancata cessione dei programmi e dei sistemi informatici che venivano utilizzati dai dipendenti prima dello scorporo, la Corte territoriale non ha fatto altro che esaminare il contenuto del contratto di cessione, e la sua ricostruzione fattuale non è stata censurata dalla parte ricorrente. Questa piuttosto valorizza l’incedibilità – indiscussa – dei data base di V., contenente i dati sensibili relativi ai clienti, onde farne discendere l’incedibilità anche non solo dei programmi che consentono l’accesso e la modifica di tali data base, ma anche di tutti i programmi e gli operativi informatici che venivano utilizzati prima della cessione per lo svolgimento delle diverse attività (promozione commerciale, consulenza tecnica, gestione delle pratiche amministrative, gestione del credito) con una soluzione che accomuna elementi distinti (i data base da un lato, i programmi operativi necessari per lo svolgimento delle attività di assistenza alla clientela e gestione del credito dell’altro), la cui coincidenza ed inscindibilità avrebbe però dovuto essere dedotta e dimostrata dalla stessa cedente.
7.1. Neppure risulta utilmente smentita, al di là di un generico richiamo al livello di inquadramento impiegatizio dei lavoratori, l’affermazione della Corte territoriale secondo la quale non è risultato che il gruppo di lavoratori trasferiti fosse dotato di un particolare know how o comunque di una specifica ed elevata professionalità, avente rilievo determinante nello svolgimento del servizio ceduto.
7.2. Correttamente poi la Corte d’appello ha rilevato che gli aspetti che anche nel giudizio di secondo grado erano stati valorizzati da V. e C. attenevano alla funzionalità del servizio in un momento successivo al contratto di cessione di ramo d’azienda, sicché rimanevano elementi organizzativi introdotti dalla cessionaria che non valevano a dimostrare che l’oggetto della cessione fosse in grado di funzionare autonomamente al momento della cessione stessa.
7.3. Le censure alla ricostruzione fattuale si traducono quindi nella richiesta di riesame dell’intero materiale probatorio, che risulta inammissibile, considerato che neppure vengono prospettate risultanze processuali la cui valutazione, omessa dalla Corte territoriale, avrebbe determinato un diverso risultato interpretativo, tanto più considerando che al presente giudizio si applica ratione temporis la formulazione dell’art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c. introdotta dall’art. 54 del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, che ha ridotto al “minimo costituzionale” il sindacato di legittimità sulla motivazione, nel senso chiarito dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 8053 del 2014, secondo il quale la lacunosità e la contraddittorietà della motivazione possono essere censurate solo quando il vizio sia talmente grave da ridondare in una sostanziale omissione, né può fondare il motivo in questione l’omesso esame di una risultanza probatoria, quando essa attenga ad una circostanza che è stata comunque valutata dal giudice del merito.
8. Segue il rigetto del ricorso principale, nonché la condanna di V. e C. s.p.a. in solido al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità nei confronti dei lavoratori controricorrenti che non hanno conciliato la vertenza, liquidate come da dispositivo, con distrazione ex art. 93 c.p.c. in favore del difensore dichiaratosi anticipatario, nonché la condanna della sola C. s.p.a. al pagamento nei confronti dei lavoratori che hanno conciliato, con distrazione ex art. 93 c.p.c. in favore del difensore dichiaratosi anticipatario. Compensate le spese tra V.O. B.V. e C. s.p.a. e tra V.O. B.V. ed i lavoratori che hanno conciliato.
In considerazione della data di notifica dei ricorsi, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti di cui al primo periodo dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, introdotto dal comma 17 dell’art. 1 della Legge 24 dicembre 2012, n. 228, ai fini del raddoppio del contributo unificato per i casi di impugnazione respinta integralmente o dichiarata inammissibile o improcedibile.
P.Q.M.
Dichiara cessata la materia del contendere tra V.O. B.V. e Z.F., S.P., T.R., S.A., S.V., S.S., S.R., S.B., R.G., R.T., P.A., M.C., M.M., M.F., D.A., S.A., L.E., G.F., F.P.A., D.L.C., D.L.T., D.D., D.S., D.R., C.M., B.M., A.C., A.R.S., C.L..
Dichiara inammissibili i ricorsi incidentali e rigetta il ricorso principale di V.O. B.V. Condanna C. s.p.a. al pagamento delle spese del giudizio in favore dei lavoratori controricorrenti che hanno conciliato la vertenza, che liquida in complessivi € 6.000,00 per compensi professionali, oltre ad € 100,00 per esborsi, rimborso spese generali al 15% ed accessori di legge, con distrazione in favore del difensore avv. L.
Condanna C. s.p.a. e V.O. B.V. al pagamento in solido delle spese del giudizio in favore dei lavoratori controricorrenti che non hanno conciliato la vertenza, che liquida in complessivi € 10.000,00 per compensi professionali, oltre ad € 100,00 per esborsi, rimborso spese generali al 15% ed accessori di legge, con distrazione in favore del difensore avv. L..
Compensa le spese tra V.O. B.V. e C. s.p.a. e tra V.O. B.V. ed i lavoratori che hanno conciliato la vertenza.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale e di quelli incidentali, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale e per quello incidentale, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.