Cassazione – Sentenza 04 aprile 2012, n. 5365 – Lavoro – Diritti ed obblighi del datore e del prestatore di lavoro – Dovere di fedeltà del dipendente – Violazione – Fattispecie – Limiti

Svolgimento del processo

Con sentenza del 25.3.2010, la Corte di Appello di Milano respingeva il gravame della società avverso la sentenza del Tribunale di Milano che aveva rigettato il ricorso dalla stessa proposto, inteso alla declaratoria della violazione, da parte del dipendente B.C. del dovere di fedeltà di cui all’art. 2105 c.c. ed alla condanna del predetto al risarcimento dei danni pari ai compensi fatturati direttamente da quest’ultimo ai clienti, oltre che al risarcimento del danno per la mancata fornitura dell’impianto di depurazione al cliente T. e del suo ampliamento.

Il B. era stato assunto nel 1996 con il compito di sovrintendere alle prestazioni di consulenza ai clienti e di incrementare lo sviluppo commerciale nel settore dei prodotti della depurazione della acque collaborando con la società fino al marzo 2005, quando, d’accordo con il datore di lavoro, aveva dato le dimissioni per divenire dipendente della società L. s.r.l.., specializzata nel settore della sicurezza, che, avvalendosi della sua opera, sarebbe diventata concessionaria esclusiva dei prodotti M. nelle tre Venezie e in Lombardia, con impegno a promuovere i detti prodotti.

Si addebita al B. di avere sottratto clienti e guadagno fatturando in proprio prestazioni libero professionali che avrebbe dovuto fornire come dipendente.

Rilevava la Corte territoriale che il danno da concorrenza deve essere provato secondo i principi generali e che la presunzione potrebbe riferirsi solo all’an debeatur, permanendo la necessità, comunque, dì provare l’esistenza di un concreto pregiudizio economico, ai fini della determinazione quantitativa e della liquidazione di esso, ed evidenziava la carenza di allegazioni ai fini dell’individuazione del danno subito. Osservava che era dirimente la considerazione che l’attività dì consulenza nel settore della sicurezza non era attività dedotta nel rapporto di lavoro subordinato, onde il B. non avrebbe potuto impiegare le relative competenze a beneficio del datore di lavoro, con la conseguenza che le sue ammissioni esulavano dall’oggetto della lite, in quanto relative all’attività svolta in tale settore. Anche te prove orali articolate non erano idonee a dimostrare i termini della dedotta attività concorrenziale e del danno derivatone.

Per la cassazione di tale decisione ricorre la M. s.r.l. con unico articolato motivo. Resiste con controricorso il B.

La società ha anche depositato note d’udienza a chiarimento dei fatti.

Motivi della decisione

Con l’unico motivo di ricorso, la società denunzia violazione degli artt. 112, 132.,secondo comma n. 4 c.p.c. e dell’art. 118, secondo comma, delle disposizioni di attuazione al codice di procedura civile, falsa applicazione dell’art. 2729 c.c. nonché incongruenza argomentativa ed omessa novazione nella reiezione delle censure dell’appellante su punti controversi decisivi per il giudizio, ai sensi dell’art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c.

Assume che l’allegazione del fatto, l’enunciazione del danno e del nesso di causale la sua dimostrazione, coincidente con la quantificazione numeraria dei pagamenti effettuati, direttamente dai clienti al B. erano tali da condurre, sulla base di presunzioni semplici – strumento probatorio di rango non inferiore agli altri mezzi di prova – dimostrare l’infedeltà del dipendente e le conseguenze pregiudizievoli subite dalla società stante il legame di assoluta necessità causale tra fatto noto e fatto ignoto, prova incontestabile del danno del quale si chiede il ristoro.

Osserva che erroneamente giudice d’appello si è riportato alle motivazioni della sentenza di primo grado senza esplicitare il percorso argomentativo che aveva condotto a disattendere le precise censure avanzate in sede di gravame. Rileva che, proprio per l’espansione dell’attività aziendale nel settore della sicurezza aziendale, il B. era stato inviato a frequentare un corso di formazione a spese della società e che il predetto avrebbe violato l’obbligo di fedeltà intrattenendo una serie di rapporti di consulenza al di fuori del rapporto di lavoro a tempo pieno ed indeterminato per il quale era stato assunto. Evidenzia che le prove documentali acquisite erano tali da dimostrare l’assunto della appellante e che le prove orali erano idonee solo a confermare quanto già emerso dalle prime.

Il ricorso è infondato.

Osserva la Corte, in via generale, che la fattispecie, come delineate dalla ricorrente viene ricondotta sia ad una ipotesi di violazione del dovere di fedeltà che incombe sul prestatore di lavoro subordinato, sia a quella di violazione del divieto di concorrenza sleale in relazione alla successiva attività svolta dal controricorrente presso la società L. s.r.l., società di consulenza nel settore ambientale.

Ai fini della configurabilità di una violazione dell’obbligo di fedeltà previsto dall’art. 2105 cod. civ., che si specifica nel divieto di concorrenza nei confronti del prestatore di lavoro subordinato – divieto che riguarda non già la concorrenza che il prestatore, dopo la cessazione del rapporto, può svolgere nei confronti del precedente datore di lavoro, ma quella svolta illecitamente nel corso del rapporto di lavoro, attraverso lo sfruttamento di conoscenze tecniche e commerciali acquisite per effetto del rapporto stesso – non sono sufficienti gli atti che esprimano il semplice proposito del lavoratore di intraprendere un’attività economica concorrente con quella del datore di lavoro, essendo invece necessario che almeno una parte dell’attività concorrenziale sia stata compiuta, così che il pericolo per il datore di lavoro sia divenuto concreto durante la pendenza del rapporto (cfr.Cass 19.7.2004 n. 13394).

In realtà la società si duole del fatto che il dipendente abbia lavorato per sé e non per la società, ma non deduce anche che i compensi per attività di assistenza fornita ai propri clienti dal B. fossero connessi ad attività prestata da quest’ultimo durante l’orario lavorativo e pertanto il danno non potrebbe automaticamente coincidere, come sostenuto dalla M. spa, con la quantificazione numeraria dei pagamenti effettuati direttamente dai clienti al B., sulla base di presunzioni semplici atte a dimostrare l’infedeltà del dipendente e le conseguenze pregiudizievoli subite dalla società. Il legame di assoluta necessità causale tra fatto noto e fatto ignoto, prova incontestabile del danno del quale si chiede il ristoro, presuppone che sia provato e certo il fatto noto, circostanza che nella specie è rimasta indimostrata, non potendo la società dolersi della mancata ammissione di prova al riguardo, che il giudice del gravame ha ritenuto inammissibile per mancata capitolazione di circostanze idonee ad apprezzare la consistenza reale sia del tempo di lavoro impiegato a beneficio della concorrenza, che delle acquisizioni di clientela, con possibilità di qualificare la capacità concorrenziale dell’attività denunziata ed il relativo pregiudizio per la società. A fronte di tale articolate argomentazioni, la società non ha neanche riprodotto i capitoli di prova, ritenuti inammissibili, al fine di consentirne l’esame sotto il profilo delta dedotta incongruenza motivazionale della decisione impugnata.

Conforme alle regole di diritto ed ai principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità deve, poi, ritenersi quanto affermato dalla Corte territoriale in ordine alla necessità della prova, secondo i principi civilistici in materia di inadempimento contrattuale, che onerano il danneggiato di fornire la dimostrazione dell’esistenza del danno lamentato e della sua riconducibilità al fatto del debitore, non agevolando l’art. 1218 c.c., che pone una presunzione di colpevolezza dell’inadempimento, la posizione del danneggiato in ordine alla prova dell’effettiva esistenza del danno derivante dall’inadempimento, fonte di responsabilità contrattuale.

Quindi, anche il danno cagionato dal compimento di atti di concorrenza non è in re ipsa, essendo solo un’eventualità che il compimento di atti di concorrenza sleale produca un danno risarcibile. Anche se risulti accertata la concorrenza sleale, pertanto, “il danno non è “in re ipsa”, ma, essendo conseguenza diversa ed ulteriore dell’illecito rispetto anche alla distorsione della concorrenza da eliminare comunque, richiede di essere provato secondo i principi generali che regolano le conseguenze del fatto illecito, solo tale avvenuta dimostrazione consentendo al giudice di passare alla liquidazione del danno, eventualmente facendo ricorso all’equità” (cfr. Cass. 26.3.2009 n. 7306 e, precedentemente, Cass. 18 dicembre 2003, n. 19430)

La ricorrente sostiene che la prova del danno dovrebbe desumersi dalle fatturazioni di prestazioni rese in proprio dal B., ma non chiarisce neppure quale sia il significato probatorio di tali documenti.

Deve, poi, rilevarsi che in tema di concorrenza sleale per sviamento di clientela, l’illiceità della condotta non deve essere ricercata episodicamente, ma va desunta dalla qualificazione tendenziale dell’insieme della manovra posta in essere per danneggiare il concorrente, o per approfittare sistematicamente del suo avviamento sul mercato. Pertanto, mentre è contraria alle norme di correttezza imprenditoriale l’acquisizione sistematica, da parte di un ex dipendente che abbia intrapreso un’autonoma attività imprenditoriale, di clienti del precedente datore di lavoro il cui avviamento costituisca, soprattutto nella fase iniziale, il terreno dell’attività elettiva della nuova impresa, più facilmente praticabile proprio in virtù delle conoscenze riservate precedentemente acquisite, deve ritenersi fisiologico il fatto che il nuovo imprenditore, nella sua opera di proposizione e promozione sul mercato della sua nuova attività, acquisisca o tenti di acquisire anche alcuni clienti già in rapporti con l’impresa alle cui dipendenze aveva prestato lavoro (cfr., in tali termini, Cass. 30.5.2007 n. 12681).

E nella specie, peraltro, neanche potrebbe ravvisarsi una vera e propria attività concorrenziale con riguardo all’attività prestata successivamente al recesso dal rapporto di lavoro con la società M., presso altra azienda, atteso che, come in modo condivisibile affermato dal giudice del gravame, l’attività di consulenza nel settore della sicurezza esula dall’oggetto sociale della ricorrente e che intese eventualmente intercorse tra le parti afferenti l’attivazione del B. per promuovere il prodotti della M. s.r.l. non assumono rilievo giuridico. Le stesse si risolvono, invero, in meri accordi non formalizzati e sicuramente non vincolanti, non inquadrabili né nel generico obbligo di fedeltà del prestatore di lavoro subordinato né in quello di astenersi da attività concorrenziale e, come tali, inidonei alla configurabilità di un comportamento inadempiente suscettibile di tradursi in un danno per la società, che aveva reputato sufficiente l’attività lavorativa svolta dal dipendente in proprio favore, come dimostrato dalla mancanza di rilievi formulati in tal senso nel corso del rapporto.

Le considerazioni svolte conducono al rigetto del ricorso e le spese del presente giudizio, per il principio della soccombenza, vanno poste a carico della società nella misura indicata in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in euro 40,00 per esborsi, euro 2500,00 per onorari, oltre spese generali, IVA e CPA.