Cassazione – Sentenza 07 gennaio 2015, n. 16 superminimo – forfait per eventuale lavoro straordinario

Svolgimento del processo
Con sentenza del 28 aprile 2009 la Corte d’appello di Torino ha confermato la sentenza del Tribunale di Torino del 4 maggio 2007 che ha condannato la M.I. s.p.a. al pagamento in favore di S.S. dell’importo dovuto a titolo di compenso a forfait per eventuale lavoro straordinario, ed al risarcimento del danno ex art. 96 cod. proc. civ. La Corte territoriale ha considerato che la medesima questione era stata già risolta in senso sfavorevole all’appellante per cui la riproposizione delle medesime difese comportava un onere ai lavoratori ed alla stessa amministrazione giudiziaria.
La M.I. s.p.a. ha proposto ricorso per cassazione avverso questa sentenza articolato su tre motivi.
Resiste il S. con controricorso.
Entrambe le parti hanno presentato memoria.

Motivi della decisione
Con il primo motivo si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2909 cod. civ. e 324 cod. proc. civ.; carenza e contraddittorietà della motivazione su un punto essenziale della controversia. In particolare si assume che i precedenti giurisprudenziali sfavorevoli all’attuale ricorrente non avrebbero potuto precludere l’esame della stessa questione da parte del giudice adito che avrebbe dovuto affrontare e decidere autonomamente la questione sottoposta al suo giudizio.
Con il secondo motivo si lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e seguenti, 2077, secondo comma, 1372 e 1340 cod. civ, in relazione al disposto dell’art. 5 del r.d.l. 15 marzo 1923, n. 692; carenza e contraddittorietà della motivazione su un punto essenziale della controversia. In particolare si deduce, innanzi tutto, che la impugnata sentenza avrebbe ignorato e superato i dati documentali in atti, ed errato così nell’interpretazione del contratto, che parlava di compenso forfetario per lavoro straordinario. Quest’ultimo costituiva una modalità, di pagamento dello straordinario, alternativa rispetto a quella ordinario, e che prescindeva dall’effettiva prestazione e dalla relativa autorizzazione. Se il lavoro straordinario prestato era inferiore al forfait ricevuto, non per questo si trasformava in un miglioramento retributivo.

La possibilità per il datore di lavoro di pagare lo straordinario effettivo oppure di compensarlo forfetariamente attribuiva al datore stesso un’obbligazione facoltativa, e la scelta tra le due modalità di adempimento spettava allo stesso debitore. La datrice di lavoro ne aveva fatto uso legittimamente comunicando ai dipendenti che avrebbe pagato soltanto le ore di lavoro effettivamente prestate. La ricorrente nega che si potesse fare uso della valutazione del comportamento complessivo delle parti per dedurne elementi utili alla tesi del superminimo, perché si trattava di una valutazione ex post. Sarebbe stato necessario, piuttosto, valutare ex ante, se l’entità dello straordinario forfetizzato fosse congrua rispetto alle reali esigenze aziendali. Nè poteva rilevare – a differenza di quanto ritenuto dalla sentenza impugnata – il fatto che il forfait potesse essere corrisposti in misura notevolmente diversa tra lavoratori con sostanziale – parità di anzianità aziendale e di retribuzione complessiva. Trattandosi di una erogazione per prestazione straordinaria, anche se ipotetica, non avrebbe trovato applicazione il principio della irriducibilità della retribuzione.
Con il terzo motivo si lamenta violazione e falsa applicazione dell’art 96 cod. proc. civ.; carenza e contraddittorietà della motivazione su un punto essenziale della controversia. In particolare si deduce che la responsabilità che la condanna ex art. 96 cod. proc. civ. presuppone, non può desumersi dalla soia esistenza di precedenti giurisprudenziali, peraltro non univoci, contrari alla tesi prospettata.
Va esaminato preliminarmente il secondo motivo di ricorso.
Il motivo non è fondato e non può trovare accoglimento, alla stregua di quanto già deciso con le sentenze di questa Corte n. 22050/2006 e n. 542/2011, dalle quali non vi sono ragioni per discostarsi. Sotto un primo profilo, nel merito, il ricorso non è ammissibile, perché ripropone, in realtà, questioni di fatto non più suscettibili di riesame in questa sede di legittimità. La ricorrente contesta, infatti, l’affermazione contenuta nella sentenza impugnata, secondo cui il compenso forfetario in discussione avrebbe dovuto essere imputato a “superminimo” e non a “lavoro straordinario”, e lamenta espressamente che questa ricostruzione avrebbe ignorato i dati documentali, criticando così la ricostruzione effettuata dalla Corte d’Appello di Torino di questo aspetto del rapporto contrattuale. L’interpretazione dei contratti, e più ampiamente dei rapporti negoziali, compete, però, al giudice del fatto, e, nel merito, non è suscettibile di riesame in sede di legittimità. Non può essere impugnata nel merito, ma soltanto sotto il profilo del vizio di motivazione, come, del resto, è stato fatto in forma non consentita in questa sede. Sotto un altro aspetto l’impugnazione è infondata. Come si è detto, la società M.I. lamenta che la sentenza abbia ignorato i dati documentali, e cioè le lettere attributive, inviate ai dipendenti interessati e da loro sottoscritte, nelle quali comunicava i miglioramenti retributivi specificando che venivano corrisposto a titolo di compenso forfetario per eventuale lavoro straordinario. La sentenza, peraltro, ha motivato congruamente, attraverso una serie di passaggi logici strettamente concatenati tra loro, le ragioni per le quali giungeva alla conclusione che quella voce retributiva in realtà costituisse un superminimo. In particolare ha spiegato in dettaglio; che, in base alle norme della contrattazione collettiva, ai caporeparto, quali erano appunto gli attuali controricorrenti, non era dovuto alcun compenso speciale salvo per i servizi di notte o nei giorni festivi; che, di conseguenza, la ditta non aveva alcun obbligo di corrispondere un compenso specifico per le prestazioni rese al di fuori dell’orario di lavoro, ma non in orario notturno, nel in giorno festivo; che le prestazioni straordinarie rese in erario notturno, o in giorno festivo, erano state sempre retribuite a parte, al di fuori della posta retributiva in discussione; che la circostanza, allegata dalla ditta, secondo cui il compenso forfetario sarebbe stato introdotto per incentivare il cosiddetto straordinario “ordinario”, non emergeva dalle lettere che lo avevano istituito. Ha argomentato, inoltre, che il significato effettivo della pattuizione poteva essere ricercato anche avvalendosi di elementi extratestuali, ed innanzi tutto attraverso il comportamento complessivo delle parti, anche posteriore all’istituzione del compenso forfetario. Ha rilevato a questo proposito, in fatto, che, a parità di anzianità e di retribuzione complessiva, i compensi forfetari riconosciuti ai diversi interessati differivano in misura considerevole nelle misure, deducendone che non erano correlati all’entità presumibile della prestazione straordinaria resa, ma si riferivano ad altri aspetti del rapporto. Queste argomentazioni molto concrete, e le altre di contorno pure sviluppate nella sentenza, non appaiono scalfite dalle argomentazioni di segno contrario della società ricorrente. Quest’ultima si basa, innanzi tutto, sul testo letterale delle lettere di attribuzione, sul fatto che specificassero che il compenso forfetario veniva riconosciuto per l’eventuale lavoro straordinario. In realtà il criterio letterale non è assoluto nè assorbente. Secondo la ricorrente l’interprete doveva ricercare la volontà negoziale sulla base delle espressioni utilizzate nel testo e non poteva cercare un significato diverso da quello letterale. Questo criterio, però, può valere soltanto per i casi in cui (come era avvenuto nei casi cui si riferivano le massime giurisprudenziali citate dalla ricorrente) il testo letterale sia sufficientemente chiaro, e non consenta dubbi sul suo significato e sulla effettiva volontà delle parti. Non può valere, in ogni caso, per la qualificazione giuridica del contratto e delle singole clausole che ne fanno parte.
Le categorie giuridiche, gli istituti cui ricondurre i termini dell’accordo negoziale, debbono essere individuate dal giudice del merito, che non è vincolato dai termini utilizzati dalle parti, perché questi ultimi possono risultare errati, e non necessariamente per consapevole volontà di occultare l’effettivo contenuto del contratto, ma anche per improprietà di linguaggio o per semplice inesattezza.
Nel caso di specie il testo riportato in ricorso era sufficientemente chiaro per quel riguardava il contenuto dett’attribuzione patrimoniale, in concreto l’entità del compenso forfetario (che, infetti, di per se stessa non risulta abbia dato luogo a contestazioni di sorta) ma – come ha ritenuto in sostanza (a sentenza impugnata – non lo era per quel che riguardava il titolo dell’attribuzione stessa. D’altra parte il criterio utilizzato dal giudice del merito, di tare riferimento nell’interpretazione del contratto al comportamento complessivo delle parti, anche posteriore all’istituzione del compenso forfetario, non è certo arbitrario o improprio, ma è del tutto lecito perché previsto espressamente proprio dall’art. 1362 c.c. (di cui la ricorrente ha denunziato la violazione), che precisa, al comma 2, che “per determinare la comune intenzione delle parti, si deve valutare il loro comportamento complessivo anche posteriore alla conclusione del contratto”.
Il rapporto di lavoro dei controricorrenti con la società era già in corso da tempo quando la società, nel 2000, aveva cessato l’erogazione dei compensi forfetari e quando un rapporto negoziale a tempo indeterminato (non soltanto di lavoro, ma anche di altro genere) si prolunga, come in questi casi, per un lasso di tempo rilevante il suo contenuto non è più costituito soltanto calle pattuizioni originarie, ma anche da quelle successive, nonché più ampiamente, da tutte le modificazioni avvenute, anche in via orale ed anche per fatti concludenti, durante il corso del rapporto stesso. In questa prospettiva può avvenire che un’attribuzione patrimoniale, che nell’equilibrio originario delle posizioni delle parti assolveva ad una determinata funzione assuma col tempo e con il modificarsi delle circostanze, una funzione diversa, in sostanza che muti, in tutto o in parte, la ragione dell’attribuzione e che, ad esempio, nel caso di specie una attribuzione patrimoniale che – in Ipotesi peraltro non dimostrata – avesse originariamente la funzione di compenso forfetario per prestazioni di lavoro straordinario l’abbia mutata nei corso degli anni trasformandosi in superminimo. Non rileva perciò che, in ipotesi, peraltro non dimostrata, nel 1973 o nel diverso anno in cui è stato attribuito, il compenso forfetario potesse essere rapportato alla prevedibile prestazione di lavoro straordinario non notturno nel festivo da parte del singolo capo reparto, perché non risulta (nè per la verità viene allegato), che questo eventuale punto di equilibrio tra la prestazione e la causale allegata sia rimasto invariato anche nel corso successivo del rapporto e che, in particolare, siano rimasti invariati nel tempo quel determinato orario e quelle determinate modalità di organizzazione del lavoro in funzione dei quali avrebbe potuto essere presunto, appunto, che venisse effettuata una prestazione straordinaria mediamente corrispondente al compenso forfetario previsto. Era necessario accertare, piuttosto, se questo rapporto sussistesse in concreto con riferimento al momento in cui l’erogazione è stata sospesa, perché in precedenza l’emolumento veniva corrisposto, e le richieste si potevano riferire soltanto al periodo successivo alla revoca. Il giudice del merito ha compiuto correttamente questa indagine, ed ha accertato appunto che in quel momento quella erogazione costituiva un superminimo e non un compenso forfetizzato per prestazioni straordinarie. Il primo motivo è assorbito.
Il terzo motivo è infondato. Il giudizio sulla temerarietà del giudizio ai fini della condanna al pagamento delle spese ex art. 96 cod. proc. civ., è riservato al giudice del merito, e non può dirsi illogica e quindi illegittima tale condanna motivata sulla base anche della consapevolezza delle numerose pronunce contrarie in identiche fattispecie.
Il ricorso va conseguentemente rigettato.
Le spese di giudizio, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso;
Condanna la ricorrente al pagamento delle spese di giudizio liquidate in complessivi € 100,00 per esborsi ed € 2.800,00 per compensi professionali oltre accessori di legge;