Svolgimento del processo
Con ricorso depositato l’11 giugno 2001, C.T., già dipendente del Comune di Capalbio, impugnò il licenziamento intimatole dal datore di lavoro il 3 febbraio 2000, deducendone l’invalidità sotto vari profili; in particolare ritenne che il provvedimento risolutorio fosse invalido perché discriminatorio per ragioni di sesso, allo scopo invocando la giurisprudenza comunitaria che aveva escluso la computabilità ai fini del comporto delle assenze determinate da malattia correlata allo stato di gravidanza; dedusse, inoltre, l’invalidità del licenziamento in considerazione della violazione dell’art. 2087 c.c., allegando che le assenze dal lavoro erano state determinate dalle inadeguate condizioni ambientali nella quale era stata costretta a svolgere la sua prestazione; segnalò inoltre l’intempestività del licenziamento rispetto alla fattispecie utilizzata dal datore di lavoro per la risoluzione del rapporto; reclamò altresì una diversa quantificazione del trattamento di malattia, il pagamento della indennità sostituiva delle ferie e il pagamento del preavviso.
Radicatosi il contraddittorio, l’adito Tribunale di Grosseto annullò il licenziamento, pronunciando sulle conseguenze ai sensi dell’art. 18 legge n. 300/70, e rigettò le domande economiche attoree e quella risarcitoria proposta in via riconvenzionale dal Comune convenuto.
Con sentenza in data 30.10 – 9.11.2007, la Corte d’Appello di Firenze, in parziale accoglimento dei gravami principale e incidentale rispettivamente del Comune di Capalbio e della C.:
– dichiarò la legittimità del licenziamento, rigettando per l’effetto le domande svolte ai sensi dell’art. 18 legge n. 300/70;
– rigettò le altre domande svolte dal Comune di Capalbio;
– dichiarò il proprio difetto di giurisdizione in ordine alla domanda di pagamento di retribuzioni feriale per gli anni 1996 e 1997 e rigettò quella afferente agli anni successivi;
– accertato il diritto della C. al trattamento di malattia fino al 30.6.1999, condannò il Comune al pagamento delle retribuzioni omesse dal 1.7.1999 alla data del licenziamento, con la relativa contribuzione previdenziale, oltre interessi legali;
– condannò il Comune al pagamento della somma di euro 6.865,42, con gli interessi legali, per differenza dal trattamento di malattia, in relazione alla non computabilità di due periodi di assenza dal lavoro, ritenuto il collegamento della malattia allo stato dì gravidanza (come specificato nella motivazione, erroneamente tale somma era stata indicata nel dispositivo letto in udienza come dovuta a titolo di preavviso).
A sostegno del decisum la Corte territoriale ritenne, in particolare, quanto segue:
– il tenore della comunicazione di licenziamento era del tutto inequivoco quantomeno per la parte dispositiva della medesima che, in esito ad una serie di premesse, ha esplicitamente comminato il licenziamento ai sensi dell’art. 21 del CCNL vigente e cioè per la scadenza del termine di comporto; anche le premesse della nota in esame erano tutte coerenti con la parte dispositiva, posto che la semplice lettura consentiva di tenere per certo che il datore di lavoro avesse costruito la risoluzione sul seguente assunto: “sei stata assente per un periodo superiore a quello previsto dal contratto, non ti sei attivata per ottenere un ulteriore periodo di comporto, ergo ti licenzio ai sensi dell’art. 21 CCNL”; le necessità organizzative ed il pregiudizio derivante dalla lunga assenza, cui la nota in esame faceva riferimento esplicito, nel contesto sopra evidenziato, in luogo di rilevare come autonomo titolo di risoluzione, si risolvevano nella mera enunciazione della ratio stessa de! licenziamento per il superamento del comporto, che corrisponde alla impossibilità datoriale di utilizzare proficuamente il dipendente in quella posizione lavorativa;
– il riferimento alte esigenze di servizio aveva, dunque, contenuto meramente descrittivo della fattispecie risolutoria, che restava quella esplicitamente utilizzata; nella nota suddetta non vi era alcuna contestazione relativa ad un gravissimo inadempimento contrattuale, posto che il mancato attivarsi per gli accertamenti pubblici era stato considerato dallo stesso datore di lavoro come elemento della fattispecie risolutoria contrattuale;
– il licenziamento de quo era dunque sicuramente un licenziamento per scadenza de! termine di comporto, dovendosi senz’altro escludere che esso potesse definirsi – nei termini di cui alla sua enunciazione – come licenziamento per giusta causa, “con riferimento al quale, per altro, difetterebbe in assoluto la previa procedura disciplinare ex art. 7 s.l”;
– quanto alla pretesa risoluzione del rapporto per mutuo consenso – “a parte ogni questione sulla sua ontologica incompatibilità con l’atto unilaterale di risoluzione che evidenzia una volontà del tutto diversa per contenuti”- non era condivisibile il collegamento, sostenuto dal Comune di Capalbio, al comportamento tenuto dalla lavoratrice in epoca successiva alla scadenza del comporto, consistito nel non essersi attivata per la sua prosecuzione e nell’aver omesso di inviare i certificati medici attestanti le ragioni dell’assenza da una certa data in poi; il che avrebbe evidenziato il disinteresse dalla C. alla prosecuzione del rapporto, del quale, in definitiva, l’Ente si sarebbe limitato a prendere atto; andava infatti rilevato come, semmai, “un valore in un certo senso abdicatorio (sull’immediato esercizio del diritto di recesso)” fosse riscontrabile nel comportamento della parte datoriale, laddove, con nota del 17.5.1999, pur potendo licenziare la C. il precedente 11 marzo per scadenza del termine di comporto, aveva unilateralmente ritenuto idonea alla sospensione del rapporto la certificazione medica attestante l’impedimento successivo alla maturazione del comporto stesso, così rinunciando “a far valere il suo diritto alla risoluzione quantomeno fino alla data del 24.5.1999”; il Comune aveva dunque ritenuto giustificata l’assenza per malattia fino al 24.5.1999 e comunicato di non mantenere più il posto di lavoro, salva la visita presso la USL, per i periodi successivi a tale data; inoltre era risultato che la C. aveva successivamente giustificato l’assenza con certificato di malattia “fino a tutto il giugno 1999″ e neppure a quest’ultima data il Comune di Capalbio aveva fatto valere il recesso per scadenza del termine di comporto; essendo pacifico che, successivamente, la C. non aveva più giustificato la sua assenza e che non aveva collaborato per dar corso all’accertamento presso la USL previsto dal contratto collettivo, non poteva ritenersi che fosse stata manifestata un’inequivoca volontà di risolvere consensualmente il rapporto, posto che, da un lato, si era avuto un comportamento della lavoratrice che, quantomeno dalla scadenza dell’ultimo certificato, aveva realizzato un’assenza ingiustificata, e, dall’altro, un comportamento del datore di lavoro che, nonostante la scadenza del comporto sin dal marzo 1999, aveva atteso fino al gennaio dell’anno successivo – e l’esisto negativo degli accertamenti attivati per l’eventuale prolungamento del comporto – per far valere l’art. 21 del CCNL; la richiesta di accertamento pubblico che il Comune aveva reiterato nel tempo a distanza di mesi dalla scadenza del comporto sarebbe stata senz’altro ultronea ove alla scadenza dell’ultimo certificato vi fosse stata una convergente volontà di risolvere il rapporto” e doveva altresì considerarsi che la richiesta della C., inoltrata nel corso del 1998 con esito negativo, di una richiesta di aspettativa per motivi familiari era del tutto incompatibile con la manifestazione di una volontà risolutoria del rapporto;
– al fine di verificare se la legittimità del licenziamento dovesse fondarsi sulla base della ricognizione del comporto effettuata dal datore di lavoro e, dunque, se dovesse esaminarsi la sola questione se il comporto fosse effettivamente scaduto alla data del 10 marzo 1999 ovvero se non dovesse prendersi in considerazione anche il periodo successivo, doveva ritenersi che doveva procedersi “sulla base dall’esame contestualizzato (negli avvenimenti descritti) del provvedimento espulsivo”, poiché “se é vero che quest’ultimo è sorretto solo dalla scadenza del comporto, è altrettanto vero che alla determinazione risolutiva il datore di lavoro è pervenuto non già immediatamente alla scadenza ma solo quando erano stati esperiti infruttuosamente tutti i tentativi per consentire alla C. di mantenere il rapporto di lavoro in regime di sospensione per malattia”; in particolare, nel preannunciare che non sarebbero stati presi in considerazioni ulteriori certificati medici (maggio 1999), il Comune di Capalbio, piuttosto che autorizzare un’assenza priva di titolo, aveva semplicemente invitato la C. ad attivarsi per giustificare l’assenza secondo le previsioni dei CCNL, alla fine sostituendosi all’interessata, ponendo in essere “tutto ciò che era nelle sue possibilità per conservare il posto di lavoro, mostrando una volontà collaborativa neppure dovuta sulla base dei criteri di correttezza e buona fede”,
– non era condivisibile la tesi della lavoratrice, condivisa dal primo Giudice, secondo cui la legittimità del licenziamento avrebbe dovuto essere “parametrata ai termini della enunciazione, in tal modo proponendo una indagine limitata al computo del comporto sommando le assenze antecedenti al triennio anteriore alla data del 10.3.1999”, sulla scorta del presupposto della immodificabilità della enunciazione, con conseguente irrilevanza delle assenze maturate dopo la data di cui alla comunicazione, e ciò pur dovendosi ritenere che alla suddetta data del 10.3.1999 il comporto non era scaduto; l’applicazione del principio secondo cui la sussistenza delle condizioni legittimanti il potere di recesso disciplinato dall’art. 2110 c.c. deve essere verificata al momento del suo esercizio, atteso che il superamento del periodo di comporto non implica la risoluzione automatica del rapporto, ma occorre che il datore di lavoro, che intenda avvalersi di tale disposizione e delle collegate previsioni del contratto collettivo, eserciti il suo diritto di recesso con la forme prescritte per porre fine al rapporto, comportava che andava verificato se il comporto fosse scaduto non alla data del 10.3.1999, ma a quella della comunicazione del licenziamento (febbraio 2000); sotto altro aspetto andava anche considerato che, mentre nel licenziamento disciplinare vi è l’esigenza della immediatezza del recesso, volta a garantire la pienezza del diritto di difesa dall’incolpato, nel licenziamento per superamento del periodo di comporto per malattia l’interesse del lavoratore alla certezza della vicenda contrattuale va contemperato con un ragionevole spatium deliberarteli che va riconosciuto al datore di lavoro, affinché egli possa valutare convenientemente nel complesso la sequenza di episodi morbosi del lavoratore, ai fini di una prognosi di compatibilità della presenza in azienda del lavoratore in relazione alle esigenze aziendali, onde la parte datoriale non è tenuta a risolvere immediatamente il rapporto alla scadenza, mantenendo ragionevolmente dei margini di valutazione ulteriori sulla utilizzabilità del lavoratore; ciò corrispondeva esattamente a quanto verificatosi nella vicenda all’esame, avendo il datore di lavoro procrastinato il licenziamento fino alla presa d’atto degli esiti negativi della procedura prevista dal contratto collettivo per il prolungamento dell’assenza giustificata, “esito negativo, per altro, imputabile alla assoluta inerzia della lavoratrice”;
– conseguentemente, anche sottraendo al comporto due periodi di assenza certamente ricollegati allo stato di gravidanza, non vi erano dubbi che alla data del licenziamento (febbraio 2000) il termine di comporto – non prolungato per ragioni imputabili alla lavoratrice – era scaduto; donde la legittimità del provvedimento risolutorio;
– doveva per contro ritenersi che nel periodo antecedente il licenziamento era dovuta la retribuzione, nei limiti in cui essa non era stata corrisposta, e, del pari, la sussistenza dell’obbligo contributivo datoriale; poteva infatti “dirsi configurata una vera e propria rinuncia da parte del Comune di Capalbio a fare valere l’assenza ingiustificata”, in ragione del mantenimento del posto di lavoro in assenza di causa di legittima sospensione; né risultavano atti negoziali datoriali “indicativi di alcuna volontà risolutoria in epoca antecedente al licenziamento”, il che comportava che l’astratta prestazione della lavoratrice era stata ritenuta utile fino alla data del licenziamento; difettando, altresì, il rifiuto di offrire la prestazione da parte della C., a quest’ultima dovevano essere corrisposte le retribuzioni dal 1°.7.1999 fino al licenziamento, oltre il preavviso dovuto in difetto di licenziamento per giusta causa; era altresì da rilevare che la lavoratrice, fino al 30 giugno 1999, aveva giustificato l’assenza con l’invio di certificati medici, cosicché, fino a tale data, doveva essere corrisposto “il trattamento di malattia previsto dal contratto collettivo”;
– con riferimento alla richiesta della C. di pagamento di una differenza del trattamento di malattia determinata dalla errata applicazione delle aliquote tempo per tempo previste e, in particolare, alla non computabilità di due distinti periodi imputabili a malattia collegata allo stato di gravidanza, tale questione, ancorché irrilevante ai fini del calcolo del periodo di comporto, risultava decisiva al fine di valutare la sussistenza del diritto alle suddette differenze, quantificate dalla lavoratrice nella somma di euro 6.865,42, non contestata specificatamente dal datore di lavoro;
– quanto al primo periodo, relativo ad un periodo di assenza causato da esiti di amniocentesi, doveva rilevarsi che tale assenza era stata determinata da un periodo di riposo in esito ad una indagine diagnostica invasiva, che, secondo la comune scienza medica, comportava la necessità di iniziale immobilità della paziente e di successivo riposo, cosicché, avuto riguardo alla direttiva 76/207/CEE e alla sentenza della Corte di Giustizia 30.6.1998, C-394/96, Brown, al fine del comporto non doveva tenersi conto del periodo in questione;
– parimenti non poteva tenersi conto del periodo di assenza di 2 mesi e 22 giorni determinato da anemia in gravidanza, posto che, nonostante la C. non avesse collaborato sottoponendosi agli accertamenti richiesti, il CTU, officiato al riguardo, aveva dato atto della sussistenza dello stato patologico descritto, spiegando come l’anemia, ancorché presente indipendentemente dallo stato di gestazione, poteva verosimilmente aggravarsi durante la gravidanza, ed aveva altresì dato atto di come, in concreto, la certificazione la attestasse senza equivoci e di come, infine, la sua entità apprezzabile potesse essere ricavata dalla prescrizione di terapia marziale endovenosa, oltre che da un ricovero ospedaliero presso il Pronto Soccorso di Orbetello per un trattamento di ferro, coevo al periodo di cui si discuteva;
– la domanda economica ulteriore proposta dalla C., avente ad oggetto l’indennità sostitutiva di ferie, non poteva essere accolta:
a) per quanto concerneva le ferie maturate negli anni 1996 e 1997 perché, trattandosi di rapporto di pubblico impiego, difettava la giurisdizione del giudice ordinario;
b) per quanto concerneva le ferie non godute e maturate nell’anno successivo, tenuto conto del lasso di tempo intercorso fra la cessazione della malattia ed il licenziamento (dal luglio 1999 al febbraio 2000), durante, il quale la lavoratrice non aveva dedotto e provato alcun impedimento e non aveva offerto la prestazione, le stesse dovevano ritenersi ampiamente compensate dalle retribuzioni correnti;
– le domande proposte dal datore di lavoro in via riconvenzionale e devolute in via incidentale, erano tutte infondate:
a) quanto a quelle relative alla restituzione della retribuzione corrisposta prima del licenziamento ed alla copertura previdenziale versata, perché, come già detto, entrambe le poste retributive erano dovute in difetto di un atto risolutorio anteriore al licenziamento;
b) quanto a quelle relative agli esborsi asseritamene sostenuti per l’assenza della C., non ricavandosi dalie stesse deduzioni datoriali alcun elemento sufficientemente univoco per ritenere che fra detti esborsi e l’assenza della lavoratrice vi fosse un diretto nesso causale o che le mansioni affidate alla C. e ad altri dipendenti durante il periodo della sua assenza giustificata non potessero continuare ad essere svolte dal medesimo personale; rilevava al riguardo anche il comportamento dello stesso datore di lavoro, che aveva volontariamente omesso di provvedere alla risoluzione alta scadenza del comporto e, comunque, al realizzarsi di una prolungata assenza ingiustificata che avrebbe autorizzato il licenziamento per giusta causa già nel luglio del 1999;
– in ordine alle deduzioni della C. inerente il carattere pretesamene discriminatorio del licenziamento ovvero assertive che la sua assenza dal lavoro fosse giustificata ai sensi dell’art. 2087 c.c., doveva rilevarsi che:
a) quanto alla pretesa discriminatorietà la lavoratrice aveva dedotto e chiesto di provare circostanze del tutto irrilevanti ed affatto indicative di una volontaria attività discriminante per ragioni di sesso, posto che la errata valutazione di alcuni periodi di malattia come determinati dallo stato di gravidanza si risolveva – in difetto di ulteriori elementi sintomatici – in una mera omissione, per altro giustificata dalla mancanza di una precisa diagnosi nella certificazione medica di volta in volta prodotta, senza che, peraltro, la lavoratrice avesse dedotto e provato altre circostanze deponenti per una minore considerazione della sua condizione di lavoratrice rispetto a quella di altri colleghi di lavoro; il già descritto comportamento datoriale, improntato oggettivamente al mantenimento del posto di lavoro nonostante l’inerzia della lavoratrice, escludeva, poi, ogni profilo di obliqua intenzionalità riconducibile ad una volontà discriminatoria;
b) quanto alla pretesa impossibilità di offrire la prestazione ex art. 2087 c.c., la lavoratrice si era limitata a descrivere una condizione lavorativa – per altro risalente – connotata da conflitti del tutto fisiologici in ogni contesto lavorativo e di entità e contenuti del tutto insufficienti a realizzare una situazione di compromissione della salute o della dignità della persona, spendendo, peraltro, una argomentazione in palese conflitto con l’impostazione della tesi principale, sorretta dall’assenza giustificata per gravidanza e malattia.
Avverso l’anzidetta sentenza della Corte territoriale, C.T. ha proposto ricorso per cassazione fondato su dodici motivi. Il Comune di Capalbio ha resistito con controricorso, svolgendo ricorso incidentale fondato su otto motivi.
La ricorrente principale ha resistito con controricorso al ricorso incidentale.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo la ricorrente principale denuncia plurime violazioni di norme di diritto e di CCNL, dolendosi che la Corte territoriale, dopo avere riconosciuto che il comporto non era scaduto alla data del 10.3.1999, abbia erroneamente considerato ai fini del predetto comporto anche le assenze successive, ancorché non contestate nella lettera di licenziamento, con ciò violando il principio di immutabilità della contestazione.
Con il secondo motivo la ricorrente principale denuncia plurime violazioni di norme di diritto e di CCNL, e, dolendosi ulteriormente che la Corte territoriale, dopo avere riconosciuto che il comporto non era scaduto alla data del 10.3.1999, abbia erroneamente considerato ai fini del predetto comporto anche le assenze successive, ancorché non contestate nella lettera di licenziamento, con ciò violando il principio di immutabilità della contestazione, contesta l’erronea applicazione sia dei commi 2 e 3 dell’art. 21 del CCNL (laddove riservano al dipendente la richiesta della concessione di un ulteriore periodo di 18 mesi di assenza e dell’accertamento delle proprie condizioni di salute tramite la USL competente), sia del principio secondo cui la sussistenza delle condizioni legittimanti il potere di recesso disciplinato dall’art. 2110 c.c. deve essere verificato al momento del suo esercizio. Con il terzo motivo la ricorrente principale denuncia plurime violazioni di norme di diritto, nazionali e comunitarie, e di CCNL, assumendo il carattere discriminatorio per ragioni di sesso del licenziamento, sul rilievo che la clausola del primo comma dell’art. 21 CCNL era stata applicata allo stesso modo a situazioni diverse, equiparando la situazione della lavoratnce gestante, assente per malattia determinata da gravidanza, alla situazione di un lavoratore di sesso maschile, assente per malattia nello stesso lasso di tempo; il giudizio della Corte d’Appello era quindi corretto nel punto in cui aveva riconosciuto che nel comporto erano stati illegittimamente considerati due periodi di assenze per malattia determinate da gravidanza, mentre era erroneo laddove non aveva riconosciuto che, per la presenza di tale vizio, il licenziamento doveva essere dichiarato illegittimo per discriminazione basata sul sesso; al contempo si duole che la Corte territoriale abbia erroneamente ritenuto che dovesse sussistere anche l’intento discriminatorio o, comunque, l’elemento soggettivo del dolo, non previsto dalla normativa comunitaria per integrare la fattispecie del licenziamento discriminatorio.
Con il quarto motivo la ricorrente principale denuncia plurime violazioni di norme di diritto, nazionali e comunitarie, e di CCNL, e, riproponendo sostanzialmente le doglianze già svolte nel precedente motivo, insiste in particolare sul rilievo che la Corte territoriale, anche nel caso in cui non avesse ritenuto di disapplicare le norme interne in conflitto con la normativa comunitaria, avrebbe dovuto non di meno interpretare le prime alla luce della lettera e dello scopo delle seconde, così da non poter prevedere il requisito psicologico del dolo fra gli elementi costitutivi della fattispecie del trattamento discriminatorio fra i sessi.
Con il quinto motivo la ricorrente principale denuncia vizio di motivazione in relazione alla tempestività della comunicazione di recesso per superamento del periodo di comporto, essendo stati trascurati, ovvero non adeguatamente valutati: a) le esplicite rinunzie datoriali del diritto di recesso, nel mentre tali rinunzie erano state adeguatamente valutate solo per disattendere la tesi datoriale dell’asserita risoluzione del rapporto per muto consenso; b) il lasso di tempo (1 mese e cinque giorni) intercorso fra la notizia della conclusione della procedura di accertamento delle condizioni di salute della lavoratrice tramite la commissione medica collegiale e la comunicazione del recesso; c) l’avvertimento della parte datoriale, di cui alla nota 17.5.1999, secondo la quale a decorrere dal 24.5.1999, giorno successivo alla scadenza dell’ultimo certificato, non sarebbero stati concessi ulteriori periodi di conservazione del posto a seguito dell’invio del solo certificato medico; la Corte territoriale aveva inoltre illogicamente trascurato che al momento della comunicazione del recesso la lavoratrice stava di fatto fruendo del periodo di ulteriore assenza (senza retribuzione e contributi previdenziali) della durata di 18 mesi previsto dal comma 2 dell’art. 21 del CCNL. A conclusione del motivo la ricorrente, precisa, ai sensi dell’art. 366 bis cpc, che gli elementi previsti da tale norma “sono stati descritti nei punti sopra indicati come segue: 5.1) indicazione del fatto controverso. 5.2.1) indicazione delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione”.
Con il sesto motivo la ricorrente principale denuncia vizio di motivazione in relazione alla tempestività della comunicazione di recesso per superamento del periodo dì comporto, assumendo l’esistenza di un insanabile contrasto fra la decisione adottata sulla tempestività di detta comunicazione e le argomentazioni svolte per disattendere la tesi dell’asserita risoluzione del rapporto per mutuo consenso con riferimento alle rinunzie datoriali del diritto di recesso. A conclusione del motivo la ricorrente, precisa, ai sensi dell’art. 366 bis cpc, che gli elementi previsti da tale norma “sono stati descritti nei punti sopra indicati come segue: 6.1) indicazione del fatto controverso.”
Con il settimo motivo la ricorrente principale denuncia plurime violazioni di norme di diritto e di CCNL, riproponendo le doglianze già sviluppate con il primo motivo in ordine al fatto che la Corte territoriale, dopo avere riconosciuto che il comporto non era scaduto alla data del 10.3.1999, abbia erroneamente considerato ai fini del predetto comporto anche le assenze successive, ancorché non contestate nella lettera di licenziamento, con ciò violando il principio di immutabilità della contestazione.
Con l’ottavo motivo la ricorrente principale denuncia plurime violazioni di norme di diritto e di CCNL, e, ripercorrendo in larga parte le doglianze già sviluppate nel terzo motivo, lamenta l’erronea interpretazione ed applicazione dei commi 2 e 3 dell’art. 21 del CCNL, con la conseguenza che non avrebbe potuto essere giustificato il licenziamento in forza delle assenze non contestate, stante l’operatività del principio di immutabilità della contestazione; si duole altresì che, nell’interpretazione della comunicazione di recesso, la Corte territoriale abbia preso in considerazione la comune intenzione delle parti, pur trattandosi di un atto unilaterale. Con il nono motivo la ricorrente principale denuncia plurime violazioni di norme di diritto e di CCNL, riproponendo le doglianze relative alla violazione del principio di immutabilità della contestazione e all’erronea applicazione di quello secondo cui la sussistenza delle condizioni legittimanti il potere di recesso disciplinato dall’art. 2110 c.c. deve essere verificato al momento del suo esercizio.
Con il decimo motivo la ricorrente principale denuncia plurime violazioni di norme di diritto e di CCNL, dolendosi della mancata applicazione del principio di conversione delle cause di assenza dal lavoro fra giorni di assenza per malattia e ferie in tema di recesso per superamento del comporto, atteso che l’indicata scadenza del periodo previsto dall’art. 21 CCNL avrebbe dovuto essere automaticamente spostata fino all’esaurimento dei 33 giorni di ferie spettanti alla lavoratrice relativamente al periodo successivo al 30.6.1998.
Con l’undicesimo motivo la ricorrente principale denuncia plurime violazioni di norme di diritto, nazionali e comunitarie, e di CCNL, lamentando la violazione del proprio diritto al pagamento dell’indennità sostitutiva delle ferie non godute all’atto della cessazione del rapporto di lavoro.
Con il dodicesimo motivo la ricorrente principale denuncia vizio di motivazione in relazione all’avvenuto computo tra le assenze per malattia di quella – relative al periodo dal 9.12.1997 al 10.3.1999 -che aveva asseritamene trovato origine nelle difficili e gravose condizioni di lavoro a cui la essa ricorrente era stata assoggettata; si assume che la Corte territoriale non abbia “adeguatamente valutato alcuni elementi da cui si evince che nella specie la salute della lavoratrice è stata compromessa dalle proibitive condizioni di lavoro a cui è stata soggetta”, caratterizzate dalla riduzione da 6 a 4 delle ore giornaliere e dal contestuale “aumento smisurato” del carico di lavoro (attribuzione oltre al servizio personale, anche di quelli di patrimonio ed economato), con conflitti riguardanti le modalità di esecuzione delle prestazioni lavorative ed insorgenza di una sindrome ansioso depressiva reattiva. A conclusione del motivo la ricorrente, precisa, ai sensi dell’art. 366 bis cpc, che gli elementi previsti da tale norma “sono stati descritti nei punti sopra indicati come segue: 12.2.1) indicazione delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione”.
2. Con il primo motivo il ricorrente incidentate denuncia error in procedendo e violazione di plurime norme di diritto in relazione alla intervenuta condanna al pagamento delle retribuzioni omesse dal 1.7.1999 alla data del licenziamento, deducendo che la lavoratrice non aveva svolto una domanda in tal senso, posto che detta domanda presupponeva il rigetto di quella di declaratoria di illegittimità del recesso datoriale, sussistendo nella contraria ipotesi il diritto alla più ampia ed omnicomprensiva indennità di cui all’art. 18 legge n. 300/70, ed atteso che, in contemplazione dell’eventuale rigetto della domanda principale, era stato domandata soltanto, in via subordinata, la corresponsione dell’indennità sostitutiva del preavviso.
Con il secondo motivo il ricorrente incidentale, sempre in relazione alla intervenuta condanna al pagamento delle retribuzioni omesse dal 1°.7.1999 alla data del licenziamento, denuncia violazione di plurime norme di diritto, deducendo che, in ipotesi di assenza della dipendente ingiustificata ed ininterrotta, era da ritenersi legittima la mancata corresponsione della retribuzione.
Con il terzo motivo il ricorrente incidentale denuncia vizio di motivazione in relazione all’affermazione secondo cui l’assenza per malattia sarebbe stata giustificata sino al 30.6.1999, deducendo che la Corte territoriale aveva, al riguardo, illegittimamente valutato taluni mezzi di prova (specificamente indicati), dai quali emergeva la circostanza, del resto mai contestata, che l’assenza per malattia era stata giustificata sino al 25.7.1999; la questione, osserva il ricorrente incidentale, era da ritenersi decisiva sia per l’utilizzabilità, ai fini del comporto, dell’ulteriore periodo di assenza per malattia, sia per la giusta decorrenza delle retribuzioni omesse, laddove non avessero trovato accoglimento le censure di cui ai precedenti due motivi.
Con il quarto motivo il ricorrente incidentale denuncia vizio di motivazione, deducendo che, contrariamente a quanto ritenuto nell’impugnata sentenza, alla luce del tenore letterale della comunicazione di recesso e del comportamento concludente tenuto dalle parti, avrebbe dovuto ritenersi che la fattispecie risolutoria avrebbe dovuto essere qualificata, alternativamente a quella di risoluzione per superamento del comporto, come scioglimento consensuale del rapporto.
Con il quinto motivo il ricorrente incidentale denuncia vizio di motivazione, deducendo che, contrariamente a quanto ritenuto nell’impugnata sentenza e tenuto conto del tenore della comunicazione di recesso, in particolare del riferimento alle esigenze di funzionalità dell’Ente ivi contenuto, doveva ritenersi che la risoluzione fosse da ascriversi, quale causa aggiuntiva al perfezionamento del periodo di comporto, anche all’ipotesi di licenziamento per giusta causa in relazione alla prolungata e ingiustificata assenza della lavoratrice a decorrere dal luglio 1999.
Con il sesto motivo il ricorrente incidentale denuncia vizio di motivazione in relazione alla ritenuta non computabilità ai fini del comporto del periodo di assenza dal 6.8 al 21.10.1996, deducendo che dai certificati Inps inviati dalla dipendente era impossibile desumere la natura della malattia che l’aveva colpita e che la malattia riconosciuta dal CTU (anemia in gravidanza) costituiva una condizione abituale non determinante un’effettiva incapacità lavorativa.
Con il settimo motivo il ricorrente incidentale denuncia vizio di violazione di normativa comunitaria (direttiva 76/207/CEE e sentenza della Corte di Giustizia 30.6.1998, C-394/96, Brown) in relazione alla ritenuta non computabilità ai fini del comporto dei periodi di assenza dal 9 al 15.7.1996 e dal 6.8 al 21.10.1996, deducendo che, ai fini della ridetta incomputabilità, avrebbe dovuto essere dimostrato che le patologie riscontrate avevano comportato un’effettiva incapacità lavorativa.
Con l’ottavo motivo il ricorrente incidentale denuncia error in procedendo e violazione di plurime norme di diritto in relazione alla intervenuta reiezione delle domande volte al recupero delle somme versate per copertura previdenziale in difetto della garanzia retributiva di cui al CCNL 7.7.1996, ripercorrendo le doglianze già svolte con il primo motivo.
3. Osserva preliminarmente la Corte che l’art. 366 bis cpc è applicabile ai ricorsi per cassazione proposti avverso i provvedimenti pubblicati dopo l’entrata in vigore (2.3.2006) del dl.vo 2 febbraio 2006, n. 40 (cfr, art. 27, comma 2, dl.vo n. 40/06) e anteriormente al 4.7.2009 (data di entrata in vigore della legge n. 68 del 2009) e, quindi, anche al presente ricorso, atteso che la sentenza impugnata è stata pubblicata il 9.11.2007.
In base alla norma suddetta, nei casi previsti dall’articolo 360, primo comma, numeri 1), 2), 3) e 4), cpc, l’illustrazione di ciascun motivo si deve concludere, a pena di inammissibilità, con la formulazione di un quesito di diritto, mentre, nel caso previsto dall’articolo 360, primo comma, n. 5), cpc, l’illustrazione di ciascun motivo deve contenere, sempre a pena di inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione. Secondo l’orientamento di questa Corte il principio di diritto previsto dall’art. 366 bis cpc, deve consistere in una chiara sintesi logico-giuridica della questione sottoposta al vaglio del giudice di legittimità, formulata in termini tali per cui dalla risposta – negativa od affermativa – che ad esso si dia, discenda in modo univoco l’accoglimento od il rigetto del gravame (efr, ex plurimis, Cass., SU, n. 20360/2007), mentre la censura concernente l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione deve contenere un momento di sintesi (omologo del quesito di diritto) che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità (efr, ex pturimis, Cass., SU, n. 20603/2007).
4. In applicazione dì tali principi deve riconoscersi l’inammissibilità del quinto, sesto e dodicesimo motivo del ricorso principale, stante la mancata formulazione del prescritto momento di sintesi, posto che, in tutti tali motivi, la parte si limita ad effettuare un mero rinvio a quanto già esposto nei precedenti punti in cui si articolano i motivi medesimi, vanificando così proprio l’indicata esigenza di circoscrivere, in una sintesi conclusiva, i limiti delle censure inerenti ai lamentati vizi motivazionali.
4.1 Solo per completezza di motivazione va comunque rilevata l’infondatezza delle censure.
4.2 II quinto e il sesto motivo si fondano principalmente sull’assunto che la Corte territoriale avrebbe trascurato di considerare, ovvero sarebbe al riguardo incorsa in contraddizione, le pur riconosciute, in altri passi motivazionali, esplicite rinunzie datoriali al diritto di recesso; ciò deve essere escluso, posto che dalla lettura complessiva della motivazione emerge come la Corte territoriale non abbia ritenuto che il Comune avesse rinunciato in via definitiva al proprio diritto di recesso per superamento del comporto, ma piuttosto che l’Ente aveva rinunciato a far valere tale diritto fino ad una determinata data, 24.5.1999 prima, fine giugno 1999 poi, (il ritenuto “valore in un certo senso abdicatorio” del comportamento del Comune è del resto testualmente riferito soltanto “all’immediato esercizio del diritto di recesso”), e fatta salva, peraltro, l’attivazione della procedura di accertamento pubblico ai fini dell’eventuale prolungamento del periodo di comporto, logicamente incompatibile con un’eventuale definitiva rinuncia alla risoluzione per superamento del medesimo; il preteso vizio di motivazione svolto con il quinto motivo è parimenti insussistente anche in relazione alle altre circostanze fattuali indicate, posto che le stesse costituiscono elementi di giudizio dall’espressa considerazione dei quali non sarebbe possibile trarre, in termini di certezza, conclusioni difformi da quelle a cui è pervenuta la Corte territoriale e che, come tali, sono dunque prive del requisito della decisività; del tutto infondata è poi la deduzione secondo cui al momento della comunicazione del recesso la lavoratrice stava di fatto fruendo del periodo di ulteriore assenza (senza retribuzione e contributi previdenziali) della durata di 18 mesi previsto dal comma 2 dell’art. 21 del CCNL, atteso che, al contrario, è pacifico che la C. neppure aveva inteso sottoporsi a quegli accertamenti solo all’esito positivo dei quali avrebbe potuto fruire di tale ulteriore periodo di assenza.
4.3 Quanto al dodicesimo motivo deve rilevarsi che la censura si risolve in una richiesta di riesame in ordine alla valenza delle circostanze fattuali dedotte in giudizio, a fronte di una valutazione del Giudice del merito che, con motivazione coerente e priva di vizi logici, ne ha rilevato l’insufficienza a realizzare una situazione di compromissione della salute o della dignità della persona; infatti, secondo la giurisprudenza di questa Corte, la deduzione con il ricorso per cassazione di un vizio di motivazione non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito della vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, essendo del tutto estranea all’ambito del vizio in parola la possibilità, per la Corte di legittimità, di procedere ad una nuova valutazione di merito attraverso l’autonoma disamina delle emergenze probatorie (cfr, ex plurimis, Cass., nn. 824/2011; 13783/2006; 11034/2006; 4842/2006; 8718/2005; 15693/2004; 2357/2004; 12467/2003; 16063/2003; 3163/2002), e dovendo considerarsi, al contempo, che, affinché la motivazione adottata dal giudice di merito possa essere considerata adeguata e sufficiente, non è necessario che essa prenda in esame, al fine di confutarle o condividerle, tutte le argomentazioni svolte dalle parti, ma è sufficiente che il giudice indichi le ragioni del proprio convincimento, dovendosi in questo caso ritenere implicitamente rigettate tutte le argomentazioni logicamente incompatibili con esse (cfr, ex plurimis, Cass., n. 12121/2004); in altri termini, come pure è stato affermato, il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall’art. 360, comma primo, n. 5) cpc, non equivale alla revisione del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che una simile revisione, in realtà, non sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe sostanzialmente in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità (cfr, ex plurimis, Cass., nn. 3161/2002; 4766/2006).
5. Il primo, secondo, settimo, ottavo e nono motivo del ricorso principale devono essere esaminati congiuntamente, siccome fra loro strettamente connessi e addirittura per larga parte riproducenti le medesime censure.
Giova al riguardo ricordare il contenuto della comunicazione di recesso.
In data 10/03/99, come già comunicatole con nota prot. n. 5183 del 17/05/99, la S.V. ha raggiunto i diciotto mesi di assenza per malattia previsti dal vigente art. 21 del C.C.N.L. 1994-1997 come periodo massimo di conservazione del posto di lavoro. Premesso che la suddetta disposizione contrattuale, al comma 2, da facoltà al lavoratore di presentare richiesta per la concessione di un ulteriore periodo di astensione dal lavoro in casi particolarmente gravi e preso atto che Ella, seppure invitata ad attivarsi in tal senso dall’Amministrazione con la medesima lettera del 17/05/99, non ha prodotto alcuna esplicita istanza in merito alla questione. Atteso, altresì, che pur in mancanza dell’istanza sopracitata l’Amministrazione ha ritenuto di esperire ogni possibile tentativo di recupero del rapporto lavorativo attivando la procedura di accertamento delle condizioni di salute del dipendente, prevista dal comma 3 dell’art. 21, per tramite della competente Azienda USI, mediante richiesta di visita medica collegiale inoltrata con nota prot. n. 8197 del 03/08/99. Rilevato che a fronte di due convocazioni inviatele da parte della Azienda USI, n. 9 di Grosseto, rispettivamente per i giorni 16/11/99 e 14/12/99, Ella ha ritenuto di non sottoporsi a visita medica collegiale come attestato dalla medesima USI, con comunicazione del 21/12/99 – ns. prot. n. 13288 del 28/12/99.
Per i motivi sopra espressi e tenuto anche conto delle esigenze di funzionalità dell’Ente che non può privarsi di una posizione organizzativa quale quella da Lei ricoperta, in applicazione dell’art. 21 sopra richiamato Le comunico che si dà luogo alla immediata risoluzione del rapporto di lavoro”.
5.1 Deve anzitutto rilevarsi la sostanziale inconducenza dei profili di doglianza relativi alla dedotta violazione od erronea applicazione dei commi 2 e 3 dell’art. 21 del CCNL (laddove riservano al dipendente la richiesta della concessione di un ulteriore periodo di 18 mesi di assenza e dell’accertamento delle proprie condizioni di salute tramite la USL competente), anche per asserita violazione, nell’interpretazione delle clausole della contrattazione collettiva, dei criteri ermeneutici di cui agli artt. 1362 e ss c.c.; infatti ciò che rileva per il riscontro della denunciata violazione del principio di immutabilità della contestazione e, quindi della valorizzabilità o meno, ai fini del superamento del comporto, delle assenze per malattia successive al 10.3.1999, è stabilire se con la surricordata comunicazione di recesso si sia fatto riferimento – ossia sia stata svolta contestazione al riguardo – esclusivamente alle assenze anteriori a tale data ovvero anche a quelle successivamente verificatesi; ne discende che il giudizio sulla legittimità o meno dell’attivazione della procedura di controllo da parte del datore di lavoro, anziché da parte della lavoratrice, non influisce minimamente sull’indagine relativa alla effettiva portata, in termini di contestazione delle assenze, della comunicazione di recesso. Solo per completezza di motivazione va comunque notato che la procedura di controllo prevista dal ridetto art. 21 CCNL è prevista a vantaggio del lavoratore, il quale, all’esito positivo della medesima, potrebbe beneficiare di un più ampio periodo di controllo; l’attivazione di detta procedura da parte del datore di lavoro non lede quindi affatto i diritti del lavoratore interessato, che, come del resto avvenuto nel caso all’esame, può agevolmente rinunciare al suddetto beneficio semplicemente non sottoponendosi agli accertamenti sanitari; ne discende che la dedotta illegittimità della procedura per attivazione della medesima da parte del datore di lavoro potrebbe, in ipotesi, ridondare soltanto a danno di quest’ultimo, il quale, proprio per averla lui stesso attivata, non sarebbe facoltizzato a contestarne gli esiti in ipotesi favorevoli al lavoratore sotto il profilo della mancata richiesta al riguardo da parte di quest’ultimo.
5.2 La sentenza impugnata, affermando di doversi procedere sulla base “dell’esame contestualizzato (negli avvenimenti descritti) del provvedimento espulsivo”, evidenziando i riferimenti contenuti nella comunicazione di recesso alla nota del Comune di Capalbio del 17.5.1999, con cui era stato preannunciato che non sarebbero stati presi in considerazioni ulteriori certificati medici, e alla procedura di controllo, attivata dallo stesso Comune, volta a consentire alla lavoratrice il mantenimento del rapporto in regime di sospensione per malattia, e traendone infine le conclusioni che non poteva condividersi l’assunto della lavoratrice, secondo cui non avrebbe dovuto essere preso in considerazione anche il periodo successivo, esprime inequivocabilmente una lettura interpretativa del testo negoziale nel senso che il recesso era stato contestato nella contemplazione anche delle assenze successive alla data del 10.3.1999, ancorché, secondo il conteggio operato dallo stesso Comune, già a tale data dovesse ritenersi essere maturato il periodo di comporto. Tale interpretazione, del resto, appare aderente al contenuto complessivo dell’atto, risultando altrimenti del tutto privi di significato gli enunciati riferimenti a comunicazioni e accadimenti successivi alla data anzidetta.
Secondo la condivisa giurisprudenza di questa Corte (cfr, per tutte, Cass., n. 18375/2006), in materia di interpretazione de! contratto e, quindi, anche degli atti unilaterali a contenuto patrimoniale (giusta il richiamo alla disciplina dei primi, nei limiti della compatibilità, di cui all’art. 1324 c.c.), l’accertamento del contenuto del negozio si traduce in un’indagine dì fatto affidata in vìa esclusiva al giudice di merito, onde la possibilità di censurare tale accertamento in sede di legittimità, a parte l’ipotesi in cui la motivazione sia così inadeguata da non consentire la ricostruzione del percorso logico seguito da quel giudice per giungere ad attribuire all’atto negoziale un determinato contenuto, è limitata al caso di violazione delle norme ermeneutiche; violazione da dedursi, peraltro, con la specifica indicazione nel ricorso per cassazione del modo in cui il ragionamento del giudice si sia da esse discostato, poiché, in caso contrario, la critica alla ricostruzione del contenuto dell’atto si sostanzia nella proposta di un’interpretazione diversa; in altri termini, il ricorso in sede di legittimità, riconducibile, in linea generale, al modello dell’argomentazione di carattere confutativo, laddove censuri l’interpretazione accolta dalla sentenza impugnata, non può assumere tutti i contenuti di cui quel modello è suscettibile, dovendo limitarsi ad evidenziare l’invalidità dell’interpretazione adottata attraverso l’allegazione {con relativa dimostrazione) dell’inesistenza o dell’assoluta inadeguatezza dei dati tenuti presenti dal giudice di merito o anche solo delle regole giustificative (anche implicite) che da quei dati hanno condotto alla conclusione accolta, e non potendo, invece, affidarsi alla mera contrapposizione di un risultato diverso sulla base di dati asseritamente più significativi o di regole di giustificazione prospettate come più congrue. Nel caso che ne occupa, peraltro, la censura alla interpretazione della comunicazione di recesso sottesa alla decisione impugnata è stata prospettata, in particolare con l’ottavo motivo, sotto il profilo che la Corte territoriale, che non avrebbe dovuto indagare sulla comune intenzione delle parti trattandosi di un atto unilaterale, aveva invece fatto erroneo riferimento all’esito negativo della procedura di controllo “per mancata collaborazione della C.” e all’imputabilità a quest’ultima del mancato prolungamento del comporto; tali doglianze non colgono evidentemente nel segno, non costituendo affatto l’evidenziazione del comportamento della lavoratrice la ragione fondante dell’interpretazione del contenuto del negozio accolta dalla Corte territoriale in relazione all’ambito e alla portata della contestazione delle assenze, con ciò finendo la ricorrente per contrapporre soltanto una diversa lettura della comunicazione di recesso e restando solo assiomaticamente enunciato ciò che avrebbe dovuto esser dimostrato, ossia che il Giudice del merito si era discostato dai criteri ermeneutici legali nel non avere ritenuto che la contestazione delle assenze concerneva soltanto quelle verificatesi entro il 10.3.1999.
Completezza di motivazione vuole peraltro che sia altresì evidenziato come il profilo di doglianza testé esaminato, prima ancora che inconducente, è formalmente inammissibile per violazione dell’art. 366 bis cpc, non contenendo gli svolti quesiti di diritto alcun espresso riferimento ad una violazione degli artt. 1362 e ss nell’interpretazione della comunicazione di recesso, né, tanto meno, l’enunciazione al riguardo di una regula iuris.
Resta quindi solo affermato, ma nient’affatto dimostrato, il presupposto fondante dei motivi all’esame, ossia che solo le assenze verificatesi fino al 10.3.1999 erano state oggetto di contestazione, con conseguente pretesa violazione, essendo state prese in considerazione anche le successive, del principio di immutabilità della contestazione.
5.3 Peraltro, avuto riguardo all’interpretazione della comunicazione di recesso sottesa alla decisione impugnata e non validamente censurata per le ragioni anzidette, tale principio non appare invocabile.
Infatti, secondo il condiviso orientamento di questa Corte (efr, ex plurimis, Cass., nn. 716/1997; 16421/2010), con riferimento al licenziamento che trovi giustificazione nelle assenze per malattia del lavoratore, si applicano le regole dettate dall’art. 2 della legge n. 604/66 (modificato dall’art. 2 della legge n. 108/90) sulla forma dell’atto e la comunicazione dei motivi del recesso, poiché nessuna norma speciale è al riguardo dettata dall’art. 2110 c.c.; conseguentemente, qualora l’atto di intimazione del licenziamento non precisi le assenze in base alle quali sia ritenuto superato il periodo di conservazione del posto di lavoro, il lavoratore – il quale, particolarmente nel caso di comporto per sommatoria, ha l’esigenza di poter opporre propri specifici rilievi – ha la facoltà di chiedere al datore di lavoro di specificare tale aspetto fattuale delle ragioni del licenziamento, e, nel caso di non ottemperanza con le modalità di legge a tale richiesta, di dette assenze non può tenersi conto ai fini della verifica del superamento del periodo di comporto; ove, invece, il lavoratore abbia direttamente impugnato il licenziamento, il datore di lavoro può precisare in giudizio i motivi di esso ed i fatti che hanno determinato il superamento del periodo di comporto, non essendo ravvisabile in ciò una integrazione o modificazione della motivazione del recesso.
Nel caso che ne occupa la ricorrente principale non ha dedotto di avere previamente richiesto al datore di lavoro la specificazione delle assenze che avevano determinato il superamento del comporto, onde la parte datoriale ben poteva procedere a tale specificazione nel corso del processo e il Giudice del merito era conseguentemente tenuto a prenderle in considerazione ai fini del decidere, risultando con ciò corretto e coerente il riferimento (infondatamente censurato dalla ricorrente principale) della Corte territoriale al principio secondo cui la sussistenza delle condizioni legittimanti il potere di recesso disciplinato dall’art. 2110 c.c. deve essere verificato al momento del suo esercizio.
5.4 In definitiva tutti i motivi all’esame vanno disattesi.
6. Secondo la prevalente e condivisa giurisprudenza di questa Corte, in caso di assenza del lavoratore per malattia, affinché il lavoratore possa conseguire – ove non vi osti un apprezzabile interesse del datore di lavoro – il mutamento del titolo dell’assenza mediante la fruizione di un periodo di ferie, allo scopo di impedire il superamento del periodo di comporto (cui consegue la facoltà del datore di lavoro di intimare il licenziamento), è necessaria una richiesta in tal senso del lavoratore (cfr, ex plurimis, Cass., n. 1774/2000; 3028/2003), la quale deve recare l’indicazione del momento a decorrere dal quale si intende convertire l’assenza per malattia in assenza per ferie, momento che deve precedere la scadenza del periodo di comporto, atteso che con la suddetta scadenza il datore di lavoro acquista il diritto di recedere ai sensi dell’art. 2110 c.c. (cfr, ex plurimis, Cass., nn. 873/1997; 6043/2000). La ricorrente principale, nella parte espositiva del ricorso, ha dedotto di avere richiesto la fruizione delle ferie degli anni 1996 e 1997, ma non di quelle afferenti agli anni 1998 e 1999, in relazione alle quali è stato svolto il decimo motivo: il che, anche in applicazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, conduce al rigetto di tale doglianza
7. Per effetto delle considerazioni sin qui svolte resta quindi confermato il rilievo della Corte territoriale secondo cui, anche detraendo dai periodi complessivi di assenza quelli che la sentenza di merito ha ritenuto non computabili perché ricollegati allo stato di gravidanza, alla data del licenziamento il termine di comporto era scaduto.
Ciò conduce all’assorbimento del terzo e del quarto motivo del ricorso principale, potendo la dedotta violazione della normativa comunitaria essere riferita soltanto ai due predetti periodi di assenza per malattia, la cui contemplazione, per le ragioni testé indicate, è in concreto irrilevante al fine del superamento del comporto.
8. Per analoghi motivi devono ritenersi assorbiti anche il sesto e il settimo motivo del ricorso incidentale, siccome vertenti sulla computabilità – che come si è detto è irrilevante ai fini del decidere -dei ridetti periodi di assenza per malattia ritenuti dalla Corte territoriale collegati allo stato di gravidanza della lavoratrice. Inoltre il rigetto delle censure inerenti alla legittimità del licenziamento per scadenza del periodo di comporto rende inammissibili, per carenza di interesse, i motivi quarto e quinto del ricorso incidentale, incentrati sulla asserita configurabilità di concorrenti ragioni di recesso, rispettivamente per preteso scioglimento consensuale del rapporto e per giusta causa. Per completezza di motivazione va comunque osservato che detti motivi sono anche formalmente inammissibili per violazione dell’art. 366 bis cpc; il quarto, il quinto e il sesto perché privi del prescritto momento di sintesi; il settimo perché il quesito di diritto, presupponendo che la malattia si risolvesse nei disturbi abituali della gravidanza e non determinasse un’effettiva incapacità lavorativa, ed implicando quindi un previo accertamento fattuale al riguardo, viola il principio secondo cui il quesito di diritto, dovendo consistere in una chiara sintesi logico-giuridica della questione sottoposta al vaglio del giudice di legittimità, formulata in termini tali per cui dalla risposta -negativa od affermativa – che ad esso si dia, discenda in modo univoco l’accoglimento od il rigetto del gravame, è inammissibile ove sia formulato, per ciò che qui specificamente rileva, in modo tale da richiedere alla Corte un inammissibile accertamento di fatto (cfr, ex plurimis, Cass., SU, n. 20360/2007).
9. L’odierna ricorrente principale ebbe a richiedere, fra l’altro, con domanda reiterata anche in appello, la condanna del Comune al pagamento di una somma “a titolo di trattamento economico per malattia o di risarcimento del danno ed equivalente alle retribuzioni lorde ed ai contributi previdenziali a carico del datore nel periodo compreso fra il termine di scadenza del comporto ed il giorno di risoluzione del rapporto”; trattasi di domanda che, a prescindere ovviamente da qualsivoglia considerazione sulla sua fondatezza, è del resto compatibile con quella principale di declaratoria di illegittimità del licenziamento, tenuto anche conto che, a mente dell’art. 18 legge n. 300/70, l’indennità ivi prevista è commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento, mentre la domanda in parola si riferisce al periodo antecedente. Deve quindi escludersi che la Corte territoriale, con la condanna del Comune al pagamento delle retribuzioni omesse dal 1°.7.1999 alla data del licenziamento, abbia violato il principio di corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato.
Il primo motivo del ricorso incidentale non può pertanto essere accolto.
10. Analoghe considerazioni conducono al riconoscimento dell’infondatezza anche dell’ottavo motivo del ricorso incidentale; riguardo al quale ha tuttavia assorbente rilievo l’inammissibilità dello stesso per l’inconferenza, rispetto alle doglianze svolte, del quesito di diritto, siccome formulato in termini identici a quello relativo a! primo motivo e privo di qualsivoglia riferimento alle contribuzioni previdenziali e assicurative in merito alle quali la censura è stata sollevata.
11. La Corte territoriale ha posto a fondamento della condanna al pagamento delle retribuzioni omesse dal 1°.7.1999 alla data del licenziamento il rilievo che poteva dirsi configurata una vera e propria rinuncia da parte del Comune di Capatbio “a fare valere l’assenza ingiustificata”, avendo mantenuto “il posto di lavoro in assenza di causa di legittima sospensione”.
Tale ratio decidendi collide però con il disposto dell’art. 1460 c.c., secondo cui nei contratti con prestazioni corrispettive (fra i quali evidentemente è ricompresso il contratto di lavoro subordinato), ciascuno dei contraenti può rifiutarsi di adempiere la sua obbligazione, se l’altro non adempie o non offre di adempiere contemporaneamente la propria, salvo che il rifiuto sia contrario alla buona fede.
La giurisprudenza di questa Corte, già con risalente pronuncia (cfr, Cass., n. 3324/1976), nel riconoscere l’operatività dell’eccezione di inadempimento nell’ambito del rapporto di lavoro (il che ha trovato conferma anche in più recenti pronunce: cfr, ex plurimìs, Cass., n. 2631/2008), ha escluso che il datore di lavoro possa reagire alla inadempienza del lavoratore soltanto con sanzioni disciplinari o, al limite, con il licenziamento; ciò che deve essere qui confermato, tenuto conto che il recesso dal contratto per giustificato motivo ovvero per giusta causa costituisce una facoltà della parte datoriale, la quale tuttavia, ove per qualsivoglia motivo non ritenga di ricorrervi, quand’anche ne sussistano i presupposti, non per questo può ritenersi incondizionatamente tenuta all’adempimento della prestazione retributiva, particolarmente laddove l’inadempimento del lavoratore sia di gravità tale da far venir meno il vincolo sinallagmatico.
Il secondo motivo del ricorso incidentale merita dunque accoglimento, investendo peraltro il merito della decisione la valutazione dell’eventuale contrarietà a buona fede del rifiuto del datore di lavoro di corrispondere le retribuzione per il periodo di che trattasi.
12. Il terzo motivo del ricorso incidentale resta assorbito nella parte in cui è stato svolto per l’utilizzabilità, ai fini del comporto, delle assenze per malattia successive al 30.6.1999 e fino al 25.7.1999; ciò in quanto, anche sulla base del pur censurato accertamento fattuale della Corte territoriale, il periodo di comporto, alla stregua della reiezione dei motivi al riguardo svolti dalla ricorrente principale, risulta comunque superato.
In relazione al pagamento delle retribuzioni afferenti al periodo compreso tra la cessazione della malattia e la risoluzione del contratto (trattandosi di questione sulla quale, a seguito dell’accoglimento del precedente motivo, il Giudice del rinvio dovrà ancora pronunciarsi) permane invece, almeno astrattamente, l’interesse della ricorrente incidentale.
12.1 A conclusione del motivo, pur non indicandolo formalmente come momento di sintesi, la ricorrente incidentale ha riassuntivamente specificato che “Le risultanze documentali dell’All. 33 e dell’All. 40 (alle quali è stato fatto congruo riferimento nello svolgimento del motivo) smentiscono l’affermazione della Corte di appello qui contestata, affermazione che in sostanza si risolve nella illegittima valutazione dei mezzi di prova, e che può essere censurata ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 5) cpc. Il contenuto inequivocabile degli All. 33 e 40, e il fatto stesso che la circostanza non è mai stata nemmeno contestata, avrebbe dovuto portare ad una decisione diversa da quella adottata dalla Corte di appello sul punto specifico”; tali espressioni, indicando e circoscrivendo i lamentati vizi motivazionali, soddisfano le esigenze poste dall’art. 366 bis cpc e rendono la doglianza ammissibile. Il motivo è altresì fondato; dalla ricordata documentazione e, particolarmente dall’All. 33, che pure la Corte territoriale ha espressamente considerato, emerge che l’ultimo certificato medico relativo alle essenze per malattia della C. “è stato presentato in data 29/06/1999 – ns. prot. 6736 e copre il periodo dal 25/06/99 al 25/07/99”; risulta dunque incomprensibile il percorso logico in base al quale la Corte territoriale, proprio sulla base di tale risultanza processuale, ha potuto ritenere che “risulta oggettivamente che la C. (v. doc. n. 33 di parte appellante) abbia successivamente giustificato l’assenza con certificato di malattia fino a tutto il giugno 1999”, anziché fino al 25 luglio 1999.
13. L’accoglimento del secondo motivo del ricorso incidentale e la conseguente necessaria cassazione in parte qua della sentenza impugnata fanno venir meno in radice le ragioni poste dalla sentenza impugnata a fondamento della reiezione della domanda di condanna al pagamento dell’indennità sostitutiva delle ferie non godute e maturate (limitatamente agli anni 1998 e 1999), su cui verte l’undicesimo motivo della ricorso principale.
Il percorso motivazionale seguito al riguardo dalla Corte territoriale è del resto, sotto il profilo giuridico, non condivisibile; se infatti, pur non essendo stata offerta la prestazione lavorativa, è stato ritenuto (ancorché erroneamente, per le ragioni già espresse) che te retribuzioni fossero dovute, non si vede come tali spettanze creditorie potessero determinare la compensazione delle ulteriori ragioni creditorie vantate dalla medesima parte, atteso che la sussistenza di postazioni obbligatorie contrapposte costituisce il fondamento dell’istituto della compensazione (art. 1241 e ss c.c.).
L’art. 18, comma 9, CCNL Regioni – Enti locali, triennio 1994 – 1997, applicabile alla fattispecie, prevede che le ferie sono un diritto irrinunciabile, non sono monetizzabili, salvo quanto previsto nel comma 16, e che esse sono fruite nel corso di ciascun anno solare, in periodi compatibili con le oggettive esigenze di servizio, tenuto conto delle richieste del dipendente; il successivo comma 16, a sua volta, stabilisce che, “fermo restando il disposto del comma 9”, all’atto della cessazione del rapporto, qualora le ferie spettanti a tale data non siano state fruite per esigenze di servizio, si procede al pagamento sostitutivo delle stesse.
Da tale ultima disposizione, contrariamente all’avviso del controricorrente, non può desumersi che in qualsivoglia altra ipotesi -ove cioè la fruizione delle ferie non sia avvenuta per esigenze di servizio – l’indennità sostitutiva non debba essere erogata al dipendente cessato dal rapporto, poiché il caso espressamente contemplato, in mancanza peraltro di una più organica disciplina contrattuale dell’istituto dell’indennità sostitutiva, costituisce una fattispecie particolare riconducibile a quella più generale di mancata fruizione delle ferie per causa non imputabile al lavoratore. In contemplazione del principio di irrinunciabilità delle ferie, espressamente stabilito dal ridetto CCNL e della loro non riducibilità per assenze per malattia o infortunio, anche se protratte per l’intero anno solare (art. 15 CCNL), deve quindi farsi applicazione del principio, già enunciato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui dal mancato godimento delle ferie – una volta divenuto impossibile per il datore di lavoro, anche senza sua colpa, adempiere l’obbligo di consentirne la fruizione – deriva il diritto del lavoratore al pagamento dell’indennità sostitutiva, che ha natura retributiva, in quanto rappresenta la corresponsione dei valore di prestazioni non dovute e non restituibili in forma specifica, in misura pari alla retribuzione, onde il diritto a detta indennità non può essere escluso in caso di mancata fruizione delle ferie per causa non imputabile al lavoratore (cfr, Cass., n. 15776/2002).
La valutazione della imputabilità o meno al lavoratore della mancata fruizione delle ferie, implicando un accertamento di fatto, deve ritenersi riservata al giudice del merito.
Il motivo all’esame va dunque accolto.
14. Conclusivamente i ricorsi principale e incidentale meritano accoglimento soltanto nei limiti anzidetti, dovendo essere rigettati nel resto.
La sentenza impugnata va per l’effetto cassata in relazione alle censure accolte, con rinvio al Giudice designato in dispositivo, che deciderà conformandosi ai suindicati principi di diritto e provvedere altresì sulle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
Accoglie l’undicesimo motivo del ricorso principale ed il secondo e terzo motivo del ricorso incidentale; rigetta i ricorsi nel resto; cassa la sentenza impugnata in relazione alle censure accolte e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’Appello di Bologna.