Svolgimento del processo
G.G., premesso di aver lavorato dal 15/9/74 al 31/3/97 come portiere di notte alle dipendenze della società N. srl e di aver inutilmente chiesto il passaggio al turno diurno a causa delle sue condizioni di salute, convenne quest’ultima innanzi al giudice del lavoro del Tribunale di Roma per sentirla condannare al pagamento delle differenze retributive maturate, previa dichiarazione di illegittimità del licenziamento intimatogli il 28/10/98, con ordine di reintegra nel posto di lavoro.
Da parte sua la N. srl propose opposizione al decreto ingiuntivo intimatole per il pagamento dei contributi evasi in relazione alla posizione lavorativa del G..
Riunite le cause, il giudice adito accertò la legittimità del licenziamento, dopo aver rilevato che la società aveva altri due portieri diurni, per cui non avrebbe potuto collocare utilmente il ricorrente nell’organico; il giudicante ritenne, invece, fondata la sola domanda per differenze retributive non prescritte dovute a titolo di straordinario notturno e ferie e condannò la società al pagamento della somma di € 47.000 circa, oltre che a quella di € 25.000 per danno biologico accertato nella misura del 15%; infine, respinse l’opposizione della società al decreto ingiuntivo. A seguito di impugnazione principale della società e di impugnazione incidentale del G., la Corte d’appello di Roma, con sentenza del 18/3/08 – 23/2/09, ha respinto il gravame proposto dalla società ed ha accolto parzialmente quello formulato in via incidentale dall’ex dipendente, condannando la N. srl al pagamento dell’ulteriore somma di € 1292,00 a titolo di differenze retributive accertate sulla base di una nuova consulenza tecnica d’ufficio, confermando nel resto l’appellata decisione.
Per la cassazione della sentenza propone ricorso la N. srl che affida l’impugnazione a quattordici motivi di censura.
Resiste con controricorso l’Inps, mentre rimane solo intimato il G..
La ricorrente deposita, altresì, memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
Motivi della decisione
1. Col primo motivo la società ricorrente denunzia la violazione o falsa applicazione degli artt. 1 e 3 del R.D.L. n. 692/1923. anche in relazione all’art. 2697 c.c., sostenendo che i caratteri del lavoro effettivo consistono nell’applicazione assidua e continuativa con esclusione di quelle occupazioni che richiedano per la loro natura o nella specialità del caso un lavoro discontinuo o di semplice attesa o custodia, sicché la Corte d’appello avrebbe omesso di considerare che la prestazione di un portiere di notte di un albergo, quale quella svolta dal G., rientrava tra le attività che implicano naturalmente un lavoro discontinuo, se non addirittura di semplice attesa o custodia. La ricorrente contesta, altresì, che fosse suo onere, come affermato dalla Corte di merito, quello di dimostrare che la suddetta prestazione lavorativa si era tradotta nei fatti in una sorta di mera reperibilità del dipendente.
A conclusione del motivo la ricorrente chiede di accertare se la prestazione di un portiere di notte di albergo implichi per sua natura una prestazione discontinua ai sensi dell’art. 3 del R.D. n. 692/1923, con conseguente onere a carico del lavoratore di provare le modalità ed ì tempi del servizio prestato nell’arco di tempo compreso fra l’orario iniziale e quello finale dell’attività lavorativa, in modo da consentire di tener conto delle pause di inattività.
2. Col secondo motivo è dedotta la carenza o contraddittorietà della motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio, costituito dalle modalità e dai tempi del servizio prestato dal lavoratore nell’arco di tempo fra orario iniziale ed orario finale dell’attività lavorativa. Si sostiene, in pratica, che la Corte d’appello non avrebbe correttamente valorizzato gli elementi del fatto accertati in istruttoria, che potevano condurre a ricostruire la reale portata dell’attività prestata dal ricorrente in primo grado nell’arco temporale del proprio turno dì lavoro.
Osserva la Corte che i primi due motivi possono essere trattati congiuntamente in quanto investono, sotto diversi aspetti, la stessa questione dell’espletamento, da parte del G., di un lavoro discontinuo, al fine di sostenere che il medesimo non avrebbe dimostrato le modalità di svolgimento del lavoro nel periodo intermedio tra l’inizio e la fine del suo turno notturno, non consentendo, in tal modo, di tener conto delle pause di inattività; nel contempo si denunzia che il giudice d’appello non avrebbe adeguatamente valutato al riguardo gli atti istruttori dai quali sarebbe stato possibile desumere la fondatezza della tesi difensiva dell’avvenuta esecuzione di una prestazione lavorativa sostanzialmente discontinua.
Entrambi i motivi sono infondati.
Occorre, infatti, partire dalla considerazione che il lavoro discontinuo, di cui all’art 3 r.d.l. n. 692 del 1923, è caratterizzato da attese non lavorate, durante le quali il dipendente può reintegrare con pause di riposo le energie psicofisiche consumate, e che l’espletamento di lavoro straordinario è configurabile non solo ove sia convenzionalmente fissato un orario di lavoro e siano provate, anche in via presuntiva ed indiziaria, le modalità ed i tempi del servizio prestato nell’arco di tempo compreso tra l’orario iniziale e quello finale dell’attività lavorativa, così da tenere conto delle pause di inattività, ma anche allorquando l’attività lavorativa prestata dal dipendente oltre il limite dell’orario massimo legale, non operante nei suoi confronti, sia, alla stregua del concreto svolgimento del rapporto di lavoro, irrazionale e pregiudizievole del bene dell’integrità fisica del lavoratore stesso (v. in tal senso Cass. sez. lav. n. 5049 del 26/02/2008 e Cass. sez. lav. n. 1173 del 19/01/2009).
Si è, infatti, affermato (Cass. Sez. Lav. n. 21695 del 14/08/2008) che ” il principio di ragionevolezza, in base al quale l’orario di lavoro deve comunque rispettare i limiti imposti dalla tutela del diritto alla salute, si applica anche alle mansioni discontinue o di semplice attesa per le quali la variabilità, caso per caso, della loro onerosità – che dipende dalla intensità e dalla natura della prestazione ed è diversa a seconda che questa sia continuativa, anche se di semplice attesa, o discontinua – impedisce una limitazione dell’orario in via generale da parte dei legislatore. La valutazione in ordine al superamento, in concreto, del suddetto limite, spetta al giudice del merito ed è incensurabile in sede di legittimità se assistita da motivazione logica e sufficiente. (Nella specie, la S.C., nel rigettare il ricorso, ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto in contrasto con il principio di ragionevolezza la prestazione di un autista di autotreni, impegnato, con brevi intervalli di attesa tra un’ attività e l’altra, nel trasporto e nel carico e scarico della merce, con un orario di lavoro di 16 ore al giorno per quattro giorni alla settimana).” (in senso conforme v. Cass. sez. lav. n. 10542 del 3/7/2003) Quanto all’incidenza della temporanea inattività nella determinazione della durata dell’orario di lavoro nelle ipotesi di lavoro discontinuo si è avuto modo di statuire (Cass. Sez. Lav. n. 5023 del 2/3/2009) che ” il criterio distintivo tra riposo intermedio, non computabile ai fini della determinazione della durata dei lavoro, e semplice temporanea inattività, computabile, invece, a tali fini, e che trova applicazione anche nel lavoro discontinuo, consiste nella diversa condizione in cui si trova il lavoratore, il quale, nel primo caso, può disporre liberamente di se stesso per un certo periodo di tempo anche se è costretto a rimanere nella sede del lavoro o a subire una qualche limitazione, mentre, nel secondo, pur restando inoperoso, è obbligato a tenere costantemente disponibile la propria forza di lavoro per ogni richiesta o necessità. (Nella specie si è escluso che fossero periodi di riposo intermedi quelli durante ì quali, nel corso dì un viaggio, l’autista di un autotreno, sprovvisto di cabina, lascia la guida al compagno, trattandosi, in tal caso, non di un periodo di riposo intermedio vero e proprio, bensì di semplice temporanea inattività).
Orbene, nella fattispecie la Corte di merito ha fatto corretta applicazione dei suddetti principi dopo aver verificato, all’esito dell’esame delle deposizioni testimoniali, adeguatamente valutate con argomentazioni immuni da vizi di carattere logico-giuridico, che era risultato provato lo svolgimento dell’orario indicato in ricorso, cioè dalle ore 21,00 alle ore 9,00 del mattino seguente e che era stato, altresì, dimostrato che durante tale turno il G. era addetto, quale portiere notturno, alla ricezione ed all’accoglienza dei clienti, oltre che alla custodia dei valori in cassaforte, mettendo completamente a disposizione della datrice di lavoro le proprie energie lavorative anche nei momenti di minor traffico, per cut le stesse non potevano non essere considerate effettive, con la conseguenza che era risultato lo svolgimento di un orario di lavoro superiore a quello ordinario, tale da dover essere remunerato come straordinario. Inoltre, la Corte d’appello ha adeguatamente valutato il superamento del limite della ragionevolezza della durata giornaliera dell’orario di lavoro ai fini che qui interessano, avendo appurato che la N. non poteva ignorare il fatto che i ritmi lavorativi del G. erano stati caratterizzati da turni notturni di dodici ore per molti anni ed ha spiegato di aver tenuto canto delle deposizioni di tutti i testi, alcuni dei quali avevano ammesso di aver visto il G. all’inizio del turno ed altri alla fine, con la conseguenza che dalle deposizioni complessivamente valutate erano stati provati gli elementi di fatto posti a fondamento della domanda.
Pertanto, le critiche alla valutazione del materiale probatorio si traducono in un inammissibile tentativo di rivisitazione del merito delle risultanze testimoniali che non è consentito nel giudizio di legittimità.
Non va, infatti, dimenticato che “in tema di giudizio di cassazione, la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge). Conseguentemente, per potersi configurare il vizio di motivazione su un asserito punto decisivo della controversia, è necessario un rapporto di causalità fra la circostanza che si assume trascurata e la soluzione giuridica data alla controversia, tale da far ritenere che quella circostanza, se fosse stata considerata, avrebbe portato ad una diversa soluzione della vertenza. Pertanto, il mancato esame di elementi probatori, contrastanti con quelli posti a fondamento della pronunzia, costituisce vizio di omesso esame di un punto decisivo solo se le risultanze processuali non esaminate siano tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia probatoria delle altre risultanze sulle quali il convincimento è fondato, onde la “ratio decidendi” venga a trovarsi priva di base. (Nella specie la S.C. ha ritenuto inammissibile il motivo di ricorso in quanto che la ricorrente sì era limitata a riproporre le proprie tesi sulla valutazione delle prove acquisite senza addurre argomentazioni idonee ad inficiare la motivazione della sentenza impugnata, peraltro esente da lacune o vizi logici determinanti).” (Cass. Sez. 3 n. 9368 del 21/4/2006; in senso conf. v. anche Cass. sez. lav. n. 15355 del 9/8/04)
3. Col terzo motivo è dedotta la violazione o falsa applicazione degli artt. 2109 e 2110 c.c. adducendosi, in relazione alla contestata decisione del riconoscimento dell’indennità sostitutiva delle ferie non godute in corrispondenza del periodo di congedo per malattia, che la Corte d’appello, pur avendo motivato in ordine alla patologia dalla quale era affetto il G. ed al nesso eziologico tra lo “stress” subito e l’attività lavorativa svolta, tuttavia non avrebbe considerato se esisteva realmente una incompatibilità tra la malattia ed il godimento delle ferie.
4. Col quarto motivo la ricorrente deduce la carenza o contraddittorietà della motivazione in relazione ad un fatto controverso e decisivo per il giudizio consistente nella sussistenza o meno di una incompatibilità tra stato di malattia del lavoratore e fruizione delle ferie.
In sostanza viene riproposta la stessa questione di cui al precedente motivo n. 3, seppur sotto la diversa prospettazione dell’asserita esistenza di un vizio motivazionale, in quanto a giudizio della ricorrente la Corte d’appello avrebbe trascurato di verificare se lo stato patologico denunziato dal lavoratore era di natura tale da non consentirgli egualmente la fruizione delle ferie.
Col quinto motivo si segnala la carenza di motivazione su fatti controversi e decisivi per il giudizio consistenti nella pretesa maturazione delle ferie per il periodo dì aspettativa richiesto dal lavoratore, nonché sull’indennità sostitutiva delle ferie. Anche in tal caso è riproposta la questione di fondo di cui al terzo motivo, seppur sotto il diverso aspetto della omessa motivazione in ordine alla eccezione di insussistenza di una maturazione dell’indennità sostitutiva delle ferie durante il periodo di aspettativa richiesto dal lavoratore, oltre che in merito alla eccezione della insussistenza del diritto alla maturazione delle ferie rispetto al diverso istituto indiretto dell’indennità sostitutiva del preavviso.
Col sesto motivo è denunziata la violazione o falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. e viene formulato il seguente quesito di diritto: “Dica la suprema Corte, con riferimento ad un motivo di appello con il quale si contesti la sentenza di primo grado per non avere considerato che l’indennità sostitutiva delle ferie non godute non può spettare per un periodo di aspettativa richiesto dal lavoratore sull’indennità sostitutiva del preavviso, se violi o applichi falsamente al caso di specie l’art. 112 c.p.c. la sentenza d’appello che ometta di pronunciarsi sul punto.”
Col settimo motivo è dedotta la nullità della sentenza o del procedimento ed è posto il seguente quesito di diritto: “Dica la suprema Corte, con riferimento ad un motivo di appello con il quale si contesti la sentenza di primo grado per non avere considerato che l’indennità sostitutiva delle ferie non godute non può spettare per un periodo di aspettativa richiesto dal lavoratore sull’indennità sostitutiva del preavviso, se sia affetta da nullità la sentenza d’appello che ometta di pronunciarsi sul punto”
Osserva la Corte che il terzo, il quarto, il quinto, il sesto ed il settimo motivo possono essere trattati congiuntamente in quanto sottopongono alla disamina della Corte identica questione, seppur sotto i diversi profili del vizio di violazione di legge e dì quello della motivazione, del diritto al riconoscimento della indennità sostitutiva per ferie in coincidenza col periodo di aspettativa per malattia e dell’incidenza o meno delle ferie non godute sull’indennità sostitutiva di preavviso.
Tali motivi sono infondati.
Anzitutto, con argomentazione congruamente motivata ed immune da vizi di carattere logico-giuridico, la Corte d’appello ha spiegato che la consulenza tecnica d’ufficio, accuratamente eseguita sulla persona del periziando e sulla scorta delle certificazioni mediche non smentite, aveva consentito di accertare l’esistenza della patologia dalla quale era affetto il G., vale a dire il “disturbo depressivo ansioso cronico quale evoluzione di un disturbo dall’adattamento reattivo a situazione occupazionale stressante”, oltre che la sussistenza del nesso causale fra tale patologia e lo “stress” generato dall’attività lavorativa dal medesimo svolta, per cui la stessa Corte è pervenuta al convincimento che non vi erano dubbi sul fatto che il mancato godimento del periodo di ferie era dipeso dalla fruizione del congedo per la riscontrata malattia, con la conseguenza che non poteva non competergli l’indennità sostitutiva per ferie non godute.
Si rivelano, pertanto, infondate le censure di cui al quarto e quinto motivo del ricorso attraverso le quali la ricorrente tenta di accreditare la tesi della presunta compatibilità, a suo dire non vagliata dai giudici d’appello, tra stato di malattia del lavoratore e fruizione delle ferie.
In realtà, il principio da superare è, all’opposto, quello di incompatibilità tra godimento delle ferie e stato di malattia ed un tale onere non può che gravare sul datore di lavoro una volta che lo stato di malattia impeditivo del godimento delle ferie gli sia stato comunicato dal dipendente e lo stesso sia stato accertato, per cui sotto tale aspetto è destituita di fondamento la censura di cui al terzo motivo attraverso la quale si prospetta l’esistenza di un onere a carico del lavoratore per la dimostrazione della incompatibilità tra malattia denunziata e ferie da usufruire. A tal proposito le Sezioni Unite di questa Corte hanno già avuto in passato modo di statuire (Cass. sez. un. n. 1947 del 23/2/1998) che “con riguardo alla malattia del lavoratore subordinato insorta durante il periodo dì godimento delle ferie, il principio dell’effetto sospensivo di detto periodo, enunciato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 616 del 1987 e chiarito dalla stessa Corte con la sentenza n. 297 del 1990, non ha valore assoluto, ma tollera eccezioni, per l’individuazione delle quali occorre aver riguardo alla specificità degli stati morbosi denunciati e alla loro incompatibilità con l’essenziale funzione di riposo, recupero delle energie psicofisiche e ricreazione, propria delle ferie. Consegue che l’avviso, comunicato dal lavoratore, del suo stato di malattia, sul presupposto della sua incompatibilità con le finalità delle ferie, determina – dalla data della conoscenza di esso da parte del datore di lavoro – la conversione dell’assenza per ferie in assenza per malattia, salvo che il datore medesimo non provi l’infondatezza di detto presupposto allegando la compatibilità della malattia con il godimento delle ferie; sicché in tal caso il giudice del merito deve valutare il sostanziale ed apprezzabile pregiudizio anche temporale che la malattia arrechi alle ferie ed al beneficio che ne deve derivare in riferimento alla natura e all’entità dello stato morboso.”
In applicazione di tale principio si è anche affermato (Cass. sez. lav. n. 15768 del 14/12/2000) che ” il principio della sospensione delle ferie per malattia insorta durante il relativo periodo, stabilito dalla Corte costituzionale con sentenza n. 616 del 1987, opera ogni qualvolta la fruizione delle ferie risulti pregiudicata in concreto dalla malattia (spettando al datore di lavoro, una volta che la malattia sia stata certificata, l’onere di provare l’inesistenza di tale pregiudizio); pertanto, deve ritenersi in contrasto con tale principio la regolamentazione collettiva (nella specie, art. 24 c.c.n.I. “industria vetro” 1990) che aggancia l’effetto sospensivo o meno della malattia alla sua durata, in quanto, pur non esistendo nel nostro ordinamento una definizione unitaria di malattia, sicuramente la durata superiore o inferiore ad un determinato numero di giorni non vale a costituire un corretto criterio per stabilire se la malattia denunciata sia o meno compatibile con il godimento delle ferie.”
Quanto al sesto e settimo motivo, attraverso i quali è lamentata l’omessa pronunzia in merito alle eccezioni con le quali si era dedotto che l’indennità sostitutiva delle ferie non maturava in costanza dell’aspettativa richiesta dal lavoratore e che nemmeno poteva tenersene conto ai fini dell’indennità sostitutiva del preavviso, si osserva quanto segue: anzitutto non è ravvisabile la denunziata omissione di pronunzia, avendo i giudici d’appello affermato che l’indennità sostitutiva per ferie spettava in relazione al loro mancato godimento, a sua volta determinato dal congedo per malattia regolarmente accertata. Per quel che riguarda, invece, l’ulteriore eccezione attinente alla contestata maturazione delle ferie sull’indennità di preavviso, di cui è lamentata l’omessa disamina, è da rilevare che la ricorrente non spiega, in ossequio al principio della autosufficienza, i termini esatti della questione sollevata nel giudizio d’appello, in quanto, nel riportarla, afferma testualmente ed in maniera generica quanto segue: “Ma stando al dispositivo la condanna al pagamento delle ferie sembrerebbe limitata ai sei mesi di malattia e ai due mesi di preavviso. E qui va osservato che il preavviso non è stato effettuato ed è stata erogata l’indennità sostitutiva sulla quale non maturano le ferie.” Come è dato vedere è la medesima ricorrente a porre in dubbio il presupposto della questione sollevata, vale a dire che la condanna comprendesse pure due mesi di preavviso e non la sola indennità sostitutiva per ferie non godute. In ogni caso è bene ricordare che questa Corte ha di recente evidenziato (Cass. sez. lav. n. 11462 del 9/7/2012) che ” in relazione al carattere irrinunciabile del diritto alle ferie, garantito anche dall’art. 36 Cost. e dall’art. 7 della direttiva 2003/88/CE (v. la sentenza 20 gennaio 2009 nei procedimenti riuniti C-350/06 e C-520/06 della Corte di giustizia dell’Unione europea), ove in concreto le ferie non siano effettivamente fruite, anche senza responsabilità del datore di lavoro, spetta al lavoratore l’indennità sostitutiva che ha, per un verso, carattere risarcitorio, in quanto idonea a compensare il danno costituito dalla perdita di un bene (il riposo con recupero delle energie psicofisiche, la possibilità di meglio dedicarsi a relazioni familiari e sociali, l’opportunità di svolgere attività ricreative e simili) al cui soddisfacimento l’istituto delle ferie è destinato e, per altro verso, costituisce erogazione di indubbia natura retributiva, perché non solo è connessa al sinallagma caratterizzante il rapporto di lavoro, quale rapporto a prestazioni corrispettive, ma più specificamente rappresenta il corrispettivo dell’attività lavorativa resa in periodo che, pur essendo di per sé retribuito, avrebbe invece dovuto essere non lavorato perché destinato al godimento delle ferie annuali, restando indifferente l’eventuale responsabilità del datore di lavoro per il mancato godimento delle stesse. Ne consegue l’illegittimità, per contrasto con norme imperative, delle disposizioni dei contratti collettivi che escludano il diritto del lavoratore all’equivalente economico di periodi di ferie non goduti al momento della risoluzione del rapporto, salva l’ipotesi del lavoratore che abbia disattesa la specifica offerta della fruizione del periodo di ferie da parte del datore di lavoro. (Nella specie, relativa ad impossibilità del lavoratore di fruire delle ferie in ragione del suo stato di malattia cui è seguita la risoluzione del rapporto, la S.C., nell’affermare il principi su esteso, ha cassato la sentenza impugnata, che aveva escluso il diritto del lavoratore sulla base dell’art. 19, commi 8 e 15, del c.c.n.l. scuola per il quadriennio normativo 1994-1997, che subordina il diritto all’indennità sostitutiva alla mancata fruizione per esigenze di servizio).
8. Con l’ottavo motivo è denunziata la violazione o falsa applicazione dell’art. 2087 c.c., anche in relazione agli artt. 2697 c.c. e 1218 c.c., in ordine alla contestata condanna al pagamento dei danno biologico ritenuto sussistente dalla Corte di merito sulla base della individuata responsabilità datoriale ai sensi dell’art. 2087 c.c..
Viene, quindi, posto il seguente quesito di diritto: “Dica la suprema Corte, con riferimento ad un’ipotesi di pretesa responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. se integri violazione o falsa applicazione di quest’ultima disposizione, anche in relazione all’art. 2697 c.c., la sentenza della Corte d’appello che, qualificata come oggettiva la responsabilità datoriale, ometta di verificare se il lavoratore abbia dedotto e provato l’esistenza di un rapporto di causalità tra la mancata adozione di determinate misure di sicurezza, generiche o specifiche, ed il danno lamentato.”
9. Col nono motivo la ricorrente si duole della carenza di motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio, consistente nella esistenza, o meno, di un rapporto di causalità, in una fattispecie di asserita responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c., tra la mancata adozione di determinate misure di sicurezza, generiche o specifiche, ed il danno lamentato.
In pratica ci si lamenta del fatto che la Corte territoriale avrebbe dovuto individuare una condotta alternativa, sulla base di regole tecniche o di esperienza, tale che se la stessa fosse stata adottata dalla parte datoriale, il lavoratore sarebbe stato immune da qualsiasi danno, per cui l’assenza di tale accertamento trasforma in responsabilità oggettiva quella individuata in capo alla datrice di lavoro, con conseguente manifestazione del denunziato vizio motivazionale. L’ottavo ed il nono motivo possono essere esaminati congiuntamente in quanto con essi è posta all’attenzione della Corte la stessa questione dell’accertamento della responsabilità della datrice di lavoro in ordine alla determinazione del danno biologico riconosciuto al G. ed alla asserita insussistenza della prova del nesso di causalità tra la mancata adozione di determinate misure di sicurezza, generiche o specifiche, ed il danno lamentato.
Entrambi i motivi sono infondati.
Invero, i giudici d’appello hanno solo posto in risalto che l’interpretazione giurisprudenziale della norma di cui all’art. 2087 c.c. tenderebbe, a loro giudizio, alla configurazione di una sorta di responsabilità oggettiva imprenditoriale, mentre ciò che in realtà rileva è che, al di là della condivisione o meno di un determinato orientamento, i medesimi giudici hanno correttamente evidenziato che in ogni caso non può non sussistere un generale dovere di protezione del datore di lavoro nei confronti del prestatore di lavoro, dovere che, secondo il loro convincimento adeguatamente motivato, non è risultato essere stato ottemperato nella fattispecie.
Infatti, nell’impugnata sentenza è stato specificatamente osservato che la società N. aveva imposto ai G. ritmi lavorativi gravosi, caratterizzati da turni notturni di dodici ore per molti anni, come tali incidenti sull’equilibrio psico-fisico del medesimo, la qual cosa, alla luce della puntuale relazione medico-legale disposta d’ufficio ed attentamente vagliata, era assunta a vera e propria concausa della accertata sindrome nevrotica depressiva ansiosa a carico dell’ex dipendente, per cui era irrilevante che quest’ultimo non avesse mai contestato l’orario di lavoro durante lo svolgimento del rapporto e che avesse rivendicato il risarcimento del danno solo a seguito del licenziamento.
In effetti, precisato che la responsabilità del datore di lavoro per inadempimento dell’obbligo di prevenzione di cui all’art. 2087 cod. civ. non è una responsabilità oggettiva, essendone elemento costitutivo la colpa, quale difetto di diligenza nella predisposizione delle misure idonee a prevenire ragioni di danno per il lavoratore, va anche chiarito che il predetto obbligo di prevenzione impone all’imprenditore di adottare non soltanto le misure tassativamente prescritte dalla legge in relazione al tipo di attività esercitata, che rappresentano lo standard minimale fissato dal legislatore per la tutela della sicurezza del lavoratore, ma anche le altre misure richieste in concreto dalla specificità del rischio, atteso che la sicurezza del lavoratore è un bene protetto dall’art. 41, secondo comma, Cost. (in tal senso v. da ultimo Cass. sez. lav. n. 6337 del 23/4/2012)
10. Col decimo motivo è denunziata la violazione o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., anche in relazione agli artt. 2699 c.c. e 2700 c.c., in quanto si sostiene che ai fini dell’accertamento della fondatezza del credito contributivo preteso dall’lnps in sede di opposizione a decreto ingiuntivo, relativamente allo straordinario che avrebbe svolto il G., la Corte d’appello aveva erroneamente considerato l’utilizzabilità, sia pure in concorso con altri elementi istruttori, della prova desumibile dal verbale redatto dagli ispettori dell’ente previdenziale, senza considerare che tale verbale poteva far fede per quello che gli ispettori avevano direttamente constatato, ma non dei fatti da essi riportati, che dovevano essere sottoposti al vaglio probatorio.
11. Con l’undicesimo motivo la ricorrente censura la sentenza per carenza di motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio, consistente nella dedotta insussistenza di ulteriori titoli a base della pretesa monitoria dell’Inps. In particolare viene segnalata l’omessa motivazione in ordine alla dedotta natura autonoma dei rapporti di lavoro ritenuti subordinati dall’lnps a seguito di ispezione, alla eccezione di prescrizione del credito contributivo vantato dall’istituto previdenziale ed all’entità delle sanzioni applicate, ritenute dalla ricorrente eccessive.
12. Col dodicesimo motivo ci si duole della violazione o falsa applicazione dell’art. 112 cp.c. in quanto si adduce che la Corte d’appello ha omesso di pronunziarsi in ordine alle altre eccezioni sollevate nel giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo, quali quelle della insussistenza dei presupposti per il riconoscimento degli ulteriori titoli vantati dall’lnps, della prescrizione e della riduzione delle sanzioni.
13. Col tredicesimo motivo è denunziata la nullità della sentenza per omessa pronuncia su questioni prospettate in sede di appello, vale a dire le stesse indicate nei precedenti motivi n. 11 e n. 12.
In pratica, coi motivi esposti dal numero dieci al tredici la società pone in evidenza la stessa questione della mancanza dei presupposti legittimanti l’azione monitoria dell’lnps, ritenuti erroneamente sussistenti da parte dei giudici d’appello, nonché l’omessa pronunzia su alcune eccezioni (prescrizione quinquennale e riduzione delle sanzioni irrogate) riproposte in secondo grado, per cui tali motivi possono essere esaminati congiuntamente.
Tali motivi sono infondati.
Invero, correttamente II giudice d’appello ha spiegato che i verbali ispettivi potevano ritenersi adeguatamente completati dalle deposizioni testimoniali che avevano consentito di accertare l’effettivo svolgimento del lavoro straordinario da parte del G., per cui non é fondata l’affermazione della ricorrente secondo la quale la Corte di merito avrebbe dato esclusivo rilievo al contenuto dei predetti verbali.
Quanto alle eccezioni della prescrizione quinquennale e della riduzione delle sanzioni, eccezioni che la ricorrente sostiene di aver riproposto in appello a causa del loro rigetto da parte del primo giudice, non può ritenersi che ricorra un’ipotesi di omessa pronunzia, avendo la Corte d’appello confermato nel resto l’impugnata sentenza, vale a dire anche la parte della stessa attraverso la quale era stato deciso il rigetto delle predette eccezioni, per cui si è in presenza di un implicito rigetto dei relativi motivi d’appello.
Quindi, dalla statuizione di conferma nel resto della gravata sentenza di primo grado si deduce l’esistenza dì un implicito rigetto di queste ultime questioni nella sede del giudizio d’appello.
Si è, infatti, affermato (Cass. Sez. 3, n. 19131 del 23/9/2004) che ” non è configurabile il vizio di omessa pronuncia (art. 112, cod. proc. civ.) quando una domanda non espressamente esaminata debba ritenersi rigettata – sia pure con pronuncia implicita – in quanto indissolubilmente avvinta ad altra domanda che ne costituisce il presupposto e il necessario antecedente logico – giuridico, che sia stata decisa e rigettata dal giudice ”
Nello stesso senso si è precisato (Cass. Sez. 2, n. 10001 del 24/6/2003) che “qualora ricorrano gli estremi di una reiezione implicita della pretesa o della deduzione difensiva ovvero di un loro assorbimento in altre declaratorie non è configurabile il vizio di omessa pronuncia di cui all’art. 112 cod. proc. civ., che si riscontra soltanto allorché manchi una decisione in ordine a una domanda a o a un assunto che renda necessaria una statuizione di accoglimento o di rigetto.”
14. Con l’ultimo motivo la ricorrente censura la sentenza per carenza o contraddittorietà della motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio costituito dalla pretesa patologia del G., in quanto, a suo dire, la Corte avrebbe recepito integralmente le risultanze della consulenza tecnica d’ufficio, ignorando le deduzioni critiche della propria difesa basate sulla consulenza tecnica di parte. Il motivo è infondato, in quanto la ricorrente limita il contenuto della presente censura ad un mero dissenso diagnostico rispetto alle conclusioni cui è pervenuta la Corte territoriale sulla base delle risultanze peritali adeguatamente valutate, risultanze che l’hanno indotta a ritenere che sussisteva nella fattispecie la lamentata patologia e che era stato accertato che i gravosi turni di lavoro notturno protratti nel tempo avevano assunto il ruolo di concausa della stessa, in guisa tale da far sorgere i presupposti per il riconoscimento del danno biologico richiesto dal lavoratore.
Invero, premesso che l’impugnazione è proposta per un presunto vizio motivazionale della sentenza, va ricordato che la valutazione espressa dal giudice di merito in ordine alla obbiettiva esistenza delle infermità, alla loro natura ed entità, nonché alla loro dipendenza dall’attività lavorativa svolta costituisce tipico accertamento di fatto incensurabile in sede di legittimità quando è sorretto, come nella fattispecie, da motivazione immune da vizi logici e giuridici che consenta di identificare l’iter argomentativo posto a fondamento della decisione.
In effetti, allorquando il giudice di merito fondi, come nel caso in esame, la sua decisione sulle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio, facendole proprie, perché i lamentati errori e lacune della consulenza determinino un vizio di motivazione della sentenza di merito, censurabile in sede di legittimità, è necessario che essi siano la conseguenza di errori dovuti alla documentata devianza dai canoni della scienza medica o di omissione degli accertamenti strumentali e diagnostiche dai quali non si possa prescindere per la formulazione di una corretta diagnosi.
Orbene, sotto questo specifico aspetto, non è sufficiente, per la sussistenza del vizio di motivazione, la mera prospettazione di una semplice difformità tra le valutazioni del perito d’ufficio e quella della parte circa l’entità e l’incidenza del dato patologico, poiché in mancanza degli errori e delle omissioni sopra specificate le censure di difetto di motivazione costituiscono un mero dissenso diagnostico non attinente a vizi del processo logico e si traducono in una inammissibile richiesta di revisione del merito del convincimento del giudice (cfr. tra le tante Cass. n. 7341/2004).
Il ricorso va, pertanto, rigettato.
Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza della ricorrente e vanno liquidate come da dispositivo in favore dell’lnps, mentre alcuna statuizione va in tal senso adottata nei riguardi del G., atteso che quest’ultimo è rimasto solo intimato.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente alle spese del presente giudizio nei confronti dell’lnps in euro 7000,00 per compensi professionali ed euro 40,00 per esborsi, oltre IVA e CPA ai sensi di legge. Nulla per le spese nei confronti di G.G..